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L’analisi

Suicidio assistito, un Ddl pieno di contraddizioni

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L’estraneità delle cure palliative alla logica dell’eutanasia, la proliferazione di una cultura dello scarto, l’arbitrarietà di chi decide quando una vita non è degna, l’illusione che un suicida sia libero, l’inaccettabilità del “male minore”: passiamo in rassegna le criticità bioetiche del Ddl del centrodestra sul suicidio.

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Vita e bioetica 22_07_2025

In un recente articolo di riflessione sul dibattuto Ddl sul suicidio assistito a firma centrodestra, apparso sul quotidiano Avvenire a firma dell’Equipe cure palliative del Campus Bio-Medico di Roma, si pone la questione per eccellenza che, al contrario, sta scomparendo dal dibattito: il senso della sofferenza del quale molti fra i sostenitori della legge, tra cui, rammarica dirlo, anche molti cattolici, offrono risposte procedurali ritenendo quelle filosofiche ed esistenziali delle astrazioni lontane dalla realtà.

Le criticità bioetiche partono da uno dei punti del testo ritenuti punti di forza dai sostenitori, ovvero l’art.3 sulle garanzie dell’accesso alle cure palliative. Senza dubbio lodevole nelle intenzioni, considerando quanto è disattesa e inapplicata l’attuale legge n.38/2010 sulle cure palliative, ma contraddittorio nel contesto del Ddl e ciò si spiega molto bene con quanto affermato dall’Equipe di palliativisti nel seguente passaggio: «Per questo riteniamo che un percorso tanto complesso non possa essere ridotto a una procedura da attraversare per poi giungere ad atti del tutto estranei alle cure palliative, come il suicidio medicalmente assistito o l’eutanasia».

Una prima evidenza non banale: il testo si propone di disporre quanto stabilito dalla sentenza n.242/2019, ovvero le condizioni di legittimità della richiesta di suicidio assistito le quali, quando presenti, sollevano il personale sanitario dalla responsabilità penale. Quindi si tratta di un Ddl sul suicidio assistito. Ne consegue una prima domanda: il suicidio è un valore? Può considerarsi un bene? Se sì, allora proporre o sostenere simili iniziative risulta coerente con il quadro di valori morali in cui ci si riconosce; al contrario, se la risposta è negativa, allora il testo va rigettato perché, pur disponendo ciò che è stato precedentemente deciso dalla sentenza della Corte, una legge ha un valore simbolico diverso e molto più impattante sotto il profilo sociale, culturale, antropologico. In altri termini, legiferare in assenza di una legge significa assumersi la responsabilità di incidere pesantemente sulla proliferazione di una “cultura dello scarto” anziché muovere in senso opposto. Che si dia l’una o l’altra risposta non si potrà non convenire che il principio di indisponibilità e inviolabilità della vita è contraddittorio rispetto all’oggetto del Ddl poiché il suicidio in sé, come atto, avviene mediante una disposizione assoluta del proprio corpo, della propria vita considerata un disvalore a determinate condizioni.

In secondo luogo, sempre nel merito di quanto sollevato dell’Equipe, occorre precisare che le cure palliative rappresentano, per eccellenza, l’arte medica proprio per lo spessore umano che rivestono. Vocazione, quella medica, che pratiche come il suicidio assistito corrodono nella sua natura rompendo la già fragile alleanza terapeutica. Non a caso, tra le maggiori problematiche legate alle cure palliative vi è la scarsità di accesso, che è conseguenza di una scarsità di interesse verso il senso di gestire dolore e sofferenza, considerato un investimento a perdere. Ciò comporta poche cattedre nelle facoltà di medicina, pochi specialisti, poco personale a disposizione e rara o nulla cultura del sollievo. Inoltre, come ben sottolineato nell’articolo menzionato, la loro efficacia sta nella relazione di fiducia che si instaura tra medico, paziente e familiari, e nella pianificazione precoce del percorso, perciò non tanto e non solo come alternativa ultima ad un uomo piegato dal suo patimento.

A quanto detto si aggiungono ulteriori punti critici che potremmo sintetizzare come segue: chi ha l’autorità di decidere quando una vita diventa un disvalore al punto che il suicidio, quindi la fine della vita, diventa il “best interest” della persona? Nessuno. Se qualcuno ammettesse questa autorità, la domanda allora sarebbe: con quale criterio questa presunta autorità può definire le condizioni in cui una vita è da ritenersi degna di continuare o terminare? Con nessuno: ogni criterio cade contravvenendo al principio di uguaglianza. Ed è quello che sta avvenendo per mano dell’Associazione Luca Coscioni quando afferma che il suicidio assistito deve essere concesso anche a coloro che, per le condizioni in cui versano, non possono darsi il suicidio e per ottenerlo hanno bisogno che sia un altro a ucciderli (eutanasia attiva).

Chi sostiene il testo in oggetto dovrebbe porsi questa domanda: considero legittime le condizioni poste per il suicidio assistito dalla Corte e riproposte nella legge? O considero moralmente sbagliato che alcuni definiscano quando il suicidio diventi un bene possibile per la persona? Se la risposta è che non lo si valuta un bene, ma una necessità data dai fatti, allora si cade nel più grave errore di pensare la realtà come moralmente neutra, dimostrando di ignorare i fondamenti filosofici dell’agire umano e anche del diritto.

A ciò segue che i criteri di idoneità al suicidio assistito (art.2) sono molto deboli sotto il profilo bioetico: chi può determinare quanto è libero un proposito suicidario considerando le circostanze in cui si forma? Si può parlare del suicidio come di un atto libero, autonomo e consapevole? Rispondere affermativamente implica ignorare gli effetti obnubilanti che dolore e sofferenza hanno su ciascuno di noi, figuriamoci in dato scenario. Sofferenze (che non è sinonimo di dolore) fisiche o psicologiche certamente ritenute intollerabili dal soggetto, ma quali criteri oggettivi misurano l’intollerabilità? Si aggiunga, inoltre, che l’irreversibilità copre una varietà di patologie estremamente ampia con le quali molti convivono con dignità e grande forza e questo, oltre al pendio scivoloso a cui già apre, quale messaggio trasmette loro? Detto ciò, se un cattolico, un bioeticista personalista, chiunque difenda i principi non negoziabili, propone o appoggia una legge simile significa, sempre in virtù di un principio di non contraddizione, che ritiene aproblematici questi aspetti. Perché la Corte ha invitato il Parlamento a legiferare, ma esso resta libero di procedere o meno.

Un breve cenno merita la questione dell’ex “comitato etico di valutazione” ora “Comitato Nazionale di Valutazione” e la privatizzazione (ulteriore) della morte in quanto non a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Il primo è fortemente criticabile sia in quanto la nomina sarebbe, per ovvie ragioni, politicizzata in un senso o nell’altro (e nessun esperto cattolico o personalista potrebbe accettare la nomina in quanto contrario di principio alla pratica che dovrebbe valutare), sia perché non è chiaro cosa accadrebbe qualora un membro decidesse di dare parere negativo malgrado la constatazione dei criteri previsti dal Ddl. Infine, è apprezzabile che il suicidio assistito non ricada a carico del SSN, ma ciò salva lo Stato, non il suicida, che volendo potrebbe procedere e, in un momento tanto drammatico, lo farebbe a spese proprie malgrado lo stesso Stato gli abbia dato copertura legale per farlo.

Infine, occorre ribadire che il male minore, quando si tratta di un male morale e non materiale, non è mai accettabile. Le circostanze, per quanto gravi, rendono sempre lecito trovare una soluzione buona per combattere un male certo, attuale, impellente, grave, ma non è mai consentito farsi responsabili di un male per contrastarne uno peggiore. In tal senso occorre precisare che il suicidio assistito non è l’alternativa “più etica” all’eutanasia, bensì un male intollerabile e di pari gravità.



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