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ROMA

Il documento che asseconda la ratio eutanasica delle Dat

S'intitola Conoscere la legge n. 219/2017 ed è un documento che interpreta la legge sulle Dat, redatto da diversi ordini professionali del Lazio, insieme all'Aisla, l'Associazione Luca Coscioni e un ospedale dei Fatebenefratelli. Il testo si muove nel solco della ratio eutanasica della 219, senza cioè criticare la legge, a parte qualche eccezione marginale.

Vita e bioetica 15_04_2019

L’Ordine delle professioni infermieristiche di Roma, l’Ordine degli psicologi del Lazio, l’Ordine provinciale di Roma dei medici-chirurghi e odontoiatri, l’associazione radicale “Luca Coscioni”, la Società Italiana di Cure Palliative, l’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica e l’ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli hanno redatto un documento dal titolo Conoscere la legge n. 219/2017 - la cosiddetta legge sulle Dat - al fine di offrire un'esegesi della norma a beneficio di cittadini, pazienti, familiari e operatori sanitari.

In via preliminare occorre precisare che questo documento non esce dal perimetro normativo della legge 219 e ne rispetta la ratio eutanasica. In altri termini il documento - a parte qualche eccezione marginale - non critica la legge. Quest’ultima, lo ricordiamo (https://lanuovabq.it/it/catalogo-online/libri), legittima sia l’eutanasia omissiva che quella commissiva (detta anche attiva). Infatti, il comma 5 dell’articolo 2 riconosce il diritto di rifiutare qualsiasi terapia, quindi anche quelle salvavita, da iniziare e di interrompere qualsiasi terapia, comprese nuovamente quelle salvavita, già iniziate. Ora, per il documento Conoscere la legge n. 219/2017 “l’eutanasia è la morte procurata direttamente da un medico a una persona richiedente” (p. 27), aggiungendo che tale forma di eutanasia è vietata dal codice penale. Dal tenore del testo si comprende che, per gli estensori, eutanasia sia solo quella commissiva, ossia attiva. Ma in realtà si può provocare direttamente la morte di una persona anche tramite eutanasia omissiva, ossia astenendosi dall’iniziare o continuare trattamenti salvavita. L’avverbio “direttamente” infatti deve essere riferito alle intenzioni dell’agente: dunque l’omissione potrebbe essere diretta alla morte propria o altrui.

Inoltre, diversamente da quanto indicato dal documento, possiamo avere eutanasia anche nel caso in cui il paziente non abbia espresso il suo consenso: si vedano i casi Eluana Englaro, Charlie Gard e Alfie Evans. Infine l’eutanasia commissiva – l’unica forma di eutanasia esistente per gli estensori del documento – è permessa proprio dalla legge 219 come abbiamo appena visto e non è vietata. Pensiamo ad esempio all’interruzione di nutrizione e idratazione assistite da parte del medico. Molto probabilmente il documento si riferisce solo all’iniezione letale, che in effetti è una modalità di eutanasia commissiva vietata dalla legge.

Il documento, assai esteso, presenta altre criticità, molte delle quali, come appuntato, in piena sintonia con il dettato normativo della legge 219. Qui ne analizziamo solo alcune. In primis, il principio di autonomia e autodeterminazione viene legittimato in senso assoluto (cfr. p. 8). Infatti è sempre da rispettare anche quando la volontà del paziente rifiuta terapie salvavita (cfr. pp. 10, 73-74, 79-80). Significativo che, in materia di ostinazione irragionevole dei trattamenti sanitari, l’ultima parola spetti sempre al paziente (cfr. p. 68): in tal modo l’eutanasia potrebbe occultarsi sotto le spoglie del rifiuto dell’accanimento terapeutico.

Il contributo dello psicologo si inserisce in questa prospettiva dove il paradigma ultimo da rispettare sono i desiderata del paziente, al di là dell’orientamento pro-eutanasia che potrebbero esprimere. Così il documento: “Non si tratta di avvalersi delle competenze psicologiche per mettere in discussione la decisione del paziente” (p. 33); “va chiarito che questa assistenza [psicologica] non è fornita per ‘persuadere’ il paziente a rinunciare allo spazio autonomo del proprio processo decisionale e neppure assolve una semplice funzione di ‘ratifica notarile’ della scelta del paziente di rifiuto/rinuncia della cura” (p. 84). Tradotto: occorre consolidare la volontà eutanasica del paziente se è presente oppure consolidare la sua volontà di vivere se c’è. Quindi è bene aiutarlo nel concretare le sue volontà, ma ci si astiene da qualsiasi giudizio valoriale sulle medesime.

Il documento poi presenta significative ambiguità in merito al termine “dignità”. Da una parte dignità personale significa qualità della vita così come percepita dalla persona stessa, valore biografico della propria esistenza. Ad esempio quando si parla del “concetto di ‘dignità’ fortemente ancorato a quello di identità soggettiva” (p. 9); quando si fa riferimento ai “valori che compongono la propria idea di dignità” (p. 13); quando si auspica che il cittadino riconosca “le condizioni di salute che ritiene incompatibili con la propria dignità” (p. 21); quando il medico, interrogato dal paziente, deve fornire una risposta “che sia rispondente al contenuto di vita del paziente, al suo concetto di dignità e di esistenza” (p. 20); infine quando ci si interroga su “fino a che punto l’esistenza possa essere considerata dignitosa” (p. 33). Di contro il documento poi indica un’accezione dell’espressione “dignità personale” condivisibile, seppur non priva di qualche sbavatura: “La dignità piena e non graduabile di ogni essere umano (il suum di ciascuno), ossia il valore che ogni uomo possiede per il semplice fatto di essere uomo e di esistere è ciò che qualifica la persona, individuo unico e irripetibile. Il valore dell’esistenza individuale è dunque l’autentico fondamento della dignità umana” (p. 57). Questa difformità di giudizio su cosa sia la dignità molto probabilmente è spiegabile se pensiamo che il documento è la sintesi di opposte sensibilità sul tema: da una parte abbiamo ad esempio l’associazione dei Radicali “Luca Coscioni” e dall’altra il Fatebenefratelli. Fatto sta, comunque, che quest’ultima accezione del termine “dignità” non è quella sposata dalla legge sulle Dat che infatti permette l’eutanasia, atto che è sempre contrario alla dignità intesa come preziosità immutabile della persona fondata metafisicamente.

Infine, sono interessanti le riflessioni articolate dal documento intorno al tema della sedazione palliativa profonda continua (espressione che comunque è al centro di alcune dispute tra esperti del settore). Il comma 2 dell’articolo 2 della legge 219 afferma: “In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”. Come viene interpretato questo passo dal documento? “Le sofferenze refrattarie - spiega il documento - sono quelle indotte da sintomi refrattari, i più frequenti dei quali sono: la dispnea, il dolore intrattabile, la nausea e il vomito incoercibili, il delirium (agitazione psico-motoria), il distress psicologico o esistenziale” (p. 78); “I sintomi definibili refrattari possono essere sia fisici sia psicologi e/o esistenziali” (p. 26). Il dolore fisico spesso provoca sofferenza, intendendo come sofferenza il dolore della mente. C’è però da appuntare che la sedazione profonda per gli estensori del documento potrebbe essere utilizzata anche nel caso di sole sofferenze psicologiche non connesse a dolori fisici e a imprecisate sofferenze esistenziali, che in realtà si convertono necessariamente in sofferenze psicologiche.

Dunque il comma 2 dell’art. 2 potrebbe aprire alla sedazione profonda anche per quelle persone, ad esempio, molto depresse, ma non pazienti terminali (a rigore la lettura di questa seconda parte del comma 2 non riguarda necessariamente i pazienti terminali). Il documento però chiarisce, correttamente, che non è lecito usare la sedazione al fine di provocare la morte del paziente (cfr. p. 26). Infatti è noto che la sedazione profonda può provocare come effetto l’accelerazione del processo morte. E dunque, se non si rispettasse tale divieto morale, si potrebbe usare questa metodica per uccidere il paziente terminale, ma anche il depresso non paziente terminale. Ma tale giudizio negativo sull’uso improprio della sedazione profonda è condiviso dalla legge? Parrebbe di sì, dato che le uniche modalità per sottoporre ad eutanasia una persona, ex lege 219, sono il rifiuto di terapie o trattamenti salvavita. Però è assai prevedibile che questo comma potrebbe essere usato con disinvoltura nelle corsie di ospedali con il beneplacito dei magistrati. Ne abbiamo già avuto una prova nel recente passato: sebbene la legge escluda che si possa rifiutare la ventilazione assistita, nel febbraio del 2018 la signora Patrizia Cocco, malata di Sla, si fece staccare il ventilatore che la teneva in vita perché voleva morire.