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putin unico nemico

Addio pacifismo, le Sinistre scelgono la retorica bellicista

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Lontano ricordo le accuse di imperialismo guerrafondaio rivolte agli Stati Uniti. L'unica “narrazione” che assicura applausi nei salotti della borghesia progressista sono le spese in armamenti, dipinte come obbligo morale e contro un solo nemico: la Russia di Putin. 

Editoriali 19_03_2024

Dopo ripetute riprove sempre più evidenti occorre ormai prendere atto di un cambiamento epocale: dopo due anni di conflitto russo-ucraino la retorica pacifista “arcobaleno” e le invocazioni al “dialogo” e ai “ponti”, che per decenni, dall'ultima fase della guerra fredda, sono stati tratti distintivi delle sinistre occidentali, sono stati messi decisamente da parte. Il loro posto è stato preso da parole d'ordine di segno specularmente opposto: appelli al riarmo, alla lotta ad oltranza, alla strenua difesa dell'Occidente.

L'accoglienza nel complesso per nulla turbata della ripetuta evocazione, da parte del presidente francese Emmanuel Macron, di un possibile schieramento di truppe sul fronte ucraino, e al contrario il coro di critiche che da ogni parte ha sommerso papa Francesco - “reo” di chiedere, da cristiano e capo della Chiesa, la fine di una strage, la realistica presa d'atto di un conflitto che non può essere vinto e l'apertura di una trattativa per limitare i danni – hanno fatto cedere il sottile argine di reticenza che ancora precedentemente resisteva, e hanno sdoganato presso nelle classi politiche e intellettuali liberal una escalation di ebbrezza guerriera.

Una contagiosa corsa al rialzo che risulterebbe persino comica a chi ricorda bene le altrettanto veementi intemerate di segno opposto regolarmente emesse per molto tempo dalle stesse fonti, se non suscitasse l'inquietante sensazione di un'avventatezza da “apprendisti stregoni” decisamente fuori controllo, e potenzialmente foriera di catastrofiche conseguenze.

Oggi sono un lontano, sfocato ricordo le tradizionali accuse di imperialismo guerrafondaio regolarmente rivolte agli Stati Uniti per lo stesso fatto di esercitare una deterrenza armata nei confronti dell'Urss, e poi ad ogni loro intervento militare, anche di peace keeping, in crisi internazionali. Così come relegata in un orizzonte lontano è la rappresentazione dell'Europa come promotrice di diplomazia e soft power.

L'unica “narrazione” che attualmente assicura gli applausi nei salotti della borghesia progressista pare essere la declamazione delle “magnifiche sorti e progressive” delle spese in armamenti, dipinte come obbligo morale con toni enfatici e dogmatici pari a quelli usati per la gloriosa “riconversione energetica”.

Sulle bocche più imprevedibili si odono l'evocazione del discorso di Churchill in cui il premier britannico prometteva che il suo popolo avrebbe combattutto anche “sulle spiagge” per fermare Hitler, e la condanna sdegnata di qualsiasi dubbio o distinguo in merito alla guerra ad oltranza, accomunati allo “spirito di Monaco”, e alla politica dell'appeasement assunta allora dalle potenze democratiche verso il dittatore tedesco.

Ma in tanta enfasi di segno contrario rispetto all'anti-occidentalismo storicamente connaturato al progressismo occidentale si manifesta (a parte  la strana, improvvisa “fulminazione” sulla via di Damasco) una incoerenza di fondo. L'accorato appello “Aux armes, citoyens”, infatti, con la corrispettiva rappresentazione di una lotta mortale senza alcun chiaroscuro tra Occidente e suoi malvagi oppositori, viene esercitata esclusivamente nei confronti di un unico nemico: la Russia di Vladimir Putin.

Quel regime, riconosciuto come interlocutore legittimo o partner politico ed economico dai paesi occidentali fino a qualche anno fa, e persino quando la crisi ucraina era già sfociata in una contrapposizione armata, oggi viene dipinto dalla vulgata di media e politici liberal come un incubo distopico orwelliano, come lo “stato canaglia” per eccellenza, come la dittatura sanguinaria di un folle pronto a incenerire il mondo pur di soddisfare la sua smania di dominio.

Ora, che la Russia sia un regime autocratico e imperialista –  non certo l'unico fuori dall'Occidente – è un dato assodato. Così come è ragionevole che gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano cercato, e cerchino ancora, di evitare per quanto possibile (non pretendendo l'impossibile, però) l'assoggettamento di Kiev a Mosca. Ma la torsione intransigente della retorica antirussa, agitata proprio dai settori politico-culturali tradizionalmente più anti-occidentali, è oggi altamente sospetta, e sfida senza pudore sia la verità che il senso delle proporzioni.

Per giustificare il “muro contro muro” e la corsa al riarmo oggi, per negare pervicacemente ogni praticabilità di un dialogo diplomatico un tempo decantato come necessità inderogabile anche contro i peggiori tagliagole, si arriva fino ad attribuire a Putin apoditticamente, su basi puramente presuntive, il disegno di attaccare, dopo aver assoggettato Kiev, qualsiasi altro paese dell'Europa orientale ex “satellite” dell'Urss e oggi aderente alla Nato, e anche i paesi occidentali del continente. Un'intenzione che i russi non hanno mai nemmeno lontanamente manifestato, e che sarebbe non soltanto contraria ai loro realistici interessi strategici – quelli al consolidamento della loro fascia geopolitica di sicurezza in Europa dell'Est – ma autolesionistica e suicida, perché porterebbe a uno scontro frontale mortale con la Nato. E non si prende minimamente in considerazione il radicamento precedente della conflittualità tra ucraini filo-occidentali e ucraini di lingua russa, né l'influenza che la politica dei primi ha avuto sul precipitare della situazione, né la ragionevolezza di una compensazione tra le rivendicazioni degli uni e degli altri.

Ma, soprattutto, alla attuale demonizzazione assoluta della Russia putiniana non corrispondono, nella nuova vulgata, accenti minimamente analoghi verso altri regimi certo non meno autoritari e aggressivi di essa. Non si sente invocare il riarmo di Taiwan o l'installazione sull'isola di testate atomiche contro la Cina, ad esempio, oppure un attacco militare contro il regime chavista del Venezuela di Nicolas Maduro che, oltre a dispensare oppressione e miseria al suo popolo, dichiara oggi anche di volersi annettere unilateralmente una parte della Guyana. Non si dice  quasi parola sulla continua minaccia nucleare e sull'azione spregiudicata di destabilizzazione dello scenario mediorientale posta in atto dal regime integralista iraniano, a lungo vezzeggiato dalle amministrazioni statunitensi di Obama e poi di Biden. Infine, non soltanto non si condannano univocamente il criminale regime di Hamas a Gaza e il suo disegno esplicito di distruzione di Israele, ma anzi, al contrario, in quel caso si moltiplicano i giustificazionismi e gli eufemismi nei confronti dell'islamismo fondamentalista, mentre sul banco degli accusati viene messo ancora una volta, incredibilmente, l'aggredito, cioè lo stesso Israele, costretto a lottare per la propria sopravvivenza.

Appena ci si allontana, insomma, dal “Male assoluto” additato nel Cremlino il piglio bellicista filo-occidentale dei progressisti stranamente torna a rovesciarsi. E torna a galla, insieme a un pacifismo di maniera molto sospetto, l'anti-occidentalismo che per tanto tempo essi hanno predicato e praticato.



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