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SOLIDARISMO SURREALE

Skateboard a Tripoli. Se questa è la priorità in Libia

La Onlus MakeLifeSkateLife e l'amministrazione di Tripoli hanno inaugurato un nuovo skate park nella capitale della Libia. Iniziativa lodevole. Ma la presentazione è surreale. Pare che tutti i problemi siano nella mancanza di inclusione di genere nello skateboard. Quando a Tripoli, ancora, le milizie si sparano.

Esteri 04_06_2022
Tripoli, milizie leali a Dbeibah

A Tripoli, la capitale della Libia, è stato appena inaugurato un parco attrezzato per skateboard. A realizzarlo è stata la MakeLifeSkateLife, una Onlus la cui missione è far sì che anche i ragazzi poveri possano praticare questo sport. “Costruiamo piste da skateboard e sviluppiamo programmi che hanno un impatto positivo sulla vita dei giovani svantaggiati – così la onlus spiega la propria attività – con i nostri parchi per skateboard vogliamo contribuire a creare una società più sana, attiva, impegnata e felice”.

 “Quello di oggi è un sogno che si avvera – ha detto la rappresentante dell’Onlus, Samantha Robinson, prendendo la parola durante la cerimonia di inaugurazione del parco, nell’ultimo fine settimana di maggio – è dal 2013 che desideravamo costruire qui un parco per skateboard”.

La MakeLifeSkateLife ha già realizzato piste da skateboard in altri Stati tra cui l’Etiopia, l’Iraq, il Libano e il Myanmar, paesi in guerra o che mostrano ancora le ferite di un conflitto che li ha devastati, visibili nelle macerie degli edifici e nelle infrastrutture danneggiate, nella povertà diffusa, nella mancanza di servizi di base.

È meraviglioso che, proprio nelle situazioni peggiori, le più disperate, qualcuno provi a portare un’opportunità di svago, l’occasione, anche se per pochi, di trascorrere ore spensierate; e, inoltre, a creare momenti di aggregazione e condivisione, sia pure solo grazie alla passione per lo stesso sport, in contesti contaminati da implacabili divisioni etniche, religiose, politiche, ideologiche. È il caso della Libia. Con la fine del regime del colonnello Muhammar Gheddafi nel 2011, il paese è imploso, diviso in tribù ostili e due governi rivali, il suo territorio conteso da milizie, trafficanti di uomini, organizzazioni criminali, gruppi jihadisti.       

 “A Tripoli questo sport è molto popolare tra i giovani e finora si è praticato per strada, ma fare skateboarding per strada può essere pericoloso” ha detto Samantha Robinson durante l’inaugurazione del parco, spiegando che l’intenzione è stata di creare uno spazio sicuro e precisando che l’invito a usufruirne è rivolto alle ragazze tanto quanto ai ragazzi: una precisazione importante perché “in Libia per quanto riguarda lo skateboarding si registra assolutamente un divario di genere”.

Le intenzioni della MakeLifeSkateLife sono davvero encomiabili. Ma le preoccupazioni espresse dalla sua rappresentante hanno del surreale. Le strade di Tripoli sono pericolose sempre e per tutti, non solo per chi pratica skateboarding. Pochi giorni prima dell’inaugurazione del parco, il tentativo di Fathi Bashagha, il primo ministro designato dal parlamento libico, di insediare il suo governo a Tripoli (il ministro rivale, riconosciuto dall’Onu, è Abdul Amid Dbeibah)  ha scatenato scontri armati tra milizie, ancora una volta si è combattuto nelle vie e nelle piazze della capitale. Quanto alle ragazze, la loro marcatamente limitata presenza sulle piste da skateboard se non l’ultimo, certo può essere considerato uno dei loro problemi minori.

L’amministrazione comunale di Tripoli ha sostenuto il progetto e vi ha contribuito mettendo a disposizione l’area su cui è stato realizzato, dimostrando di condividerne le finalità. Suona surreale anche questo. Ben altro spetterebbe di fare all’amministrazione della capitale per la sicurezza dei giovani e i diritti delle ragazze. 

Ma, sotto questo aspetto, la giunta che amministra Tripoli ha dei predecessori illustri. Il governo della Nigeria, ad esempio, nel 2002 ha vinto il premio “Tabacco e salute”, indetto dall’Oms per combattere il fumo e i suoi danni, per aver adottato nel marzo di quell’anno una legge che tra l’altro prevede cinque anni di carcere o multe elevate alle persone sorprese a fumare in locali e luoghi pubblici: “trattandosi di questioni di salute”, il legislatore ha stabilito che le condanne siano inflitte automaticamente, con procedure speciali. In Nigeria la speranza di vita alla nascita è inferiore a 55 anni, 119 bambini su mille non superano i cinque anni, le morti legate al parto e alla gravidanza sono 917 ogni 100.000 nascite, i medici sono 38 ogni 100mila abitanti. Alle stazioni degli autobus e nei parchi pubblici, dove il fumo è proibito, il rischio maggiore, nel nord est del paese, è morire a causa di un attentato dinamitardo suicida jihadista e, in tutto il territorio nazionale, di essere rapiti a scopo di estorsione.

In Mali la prima legge contro il fumo risale al 1996. Il paese  ha ricevuto il premio dell’Oms “Tabacco e salute” addirittura tre volte per l’impegno dimostrato nel “proteggere le generazioni attuali e future dai devastanti effetti (sanitari, sociali, ambientali ed economici) del fumo”. Nessun governo, però, finora ha mostrato di preoccuparsi di proteggere le nuove generazioni dalla violenza. In Mali ci sono stati tre colpi di stato negli ultimi dieci anni e il paese patisce l’incontrastata presenza di gruppi jihadisti, a mala pena contenuta grazie a interventi di truppe straniere.

Infine, la Sierra Leone. Una guerra civile atroce, combattuta dal 1991 al 2001, ha trasformato decine di migliaia di bambini (reclutati a forza, addestrati a combattere, annichiliti dalle droghe) in miliziani spietati, capaci di torturare, mutilare e uccidere; altrettanti ne ha mutilati, uccisi, resi orfani. Nel vivo del conflitto, il governo – responsabile tanto quanto i gruppi ribelli di indicibili violenze sui civili – ha aderito alla giornata mondiale contro il fumo promossa ogni anno dall’ONU. Nei luoghi pubblici e nelle vie principali della capitale Freetown, a edificazione della popolazione erano comparsi manifesti con le scritte: “Il fumo nuoce gravemente alla salute”, “Fumare provoca il cancro”. Nel 2000 il Consiglio delle Chiese, poiché “troppo facilmente dalle armi giocattolo si passa a quelle vere” aveva da parte sua lanciato una campagna contro le armi giocattolo: ai bambini che le consegnavano (furono poco più di 100) vennero dati in cambio giocattoli non violenti e libri.