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IL FILM

“Siccità”: l’uomo ha sete d’acqua ma soprattutto di salvezza

Nel suo ultimo film, presentato alla recente mostra del Cinema di Venezia, Paolo Virzì immagina una Roma distopica, in cui non piove da tre anni. Diversi personaggi si muovono in una città polverosa e infestata da scarafaggi, alla ricerca dell’acqua, rigidamente razionata. Ma la loro umanità, segnata da piccole e grandi debolezze, è soprattutto in attesa di un senso per la vita, che nel film appare in una scena meravigliosa che apre alla speranza.

Cinema e tv 14_11_2022

Virzì crea un’immagine potente e drammatica che non potremo dimenticare: il Tevere totalmente prosciugato (ovviamente realizzato in digitale), da attraversare a piedi, tra spazzatura abbandonata e un nuovo colossale reperto archeologico, riemerso dal letto del fiume inaridito. È in questo scenario quasi desertico che appaiono all’improvviso Giuseppe e Maria sull’asinello, con la promessa della natività: una luce che illumina  la nostra Capitale così miseramente ridotta, pensata e descritta in veste quasi apocalittica dal regista, insieme con i suoi validi sceneggiatori (Francesco Piccolo, Paolo Giordano e Francesca Archibugi); una storia forse suggerita anche dal primo severo lockdown della pandemia di coronavirus, quando  sembravamo  condannati alla paura e alla solitudine.

Ma in questa Roma decadente, dove per diverse ore al giorno i rubinetti sono chiusi,  non si può acquistare più di una confezione d’acqua, è vietato annaffiare le piante e lavare le macchine, la vita cerca tuttavia di scorrere in una apparente surreale normalità. I ricchi organizzano cene raffinate, alberghi esclusivi offrono ristoro nelle loro piscine rifornite con acqua privata, anche se la gente comune protesta, temendo che a breve venga completamente interrotta l’erogazione pubblica del prezioso bene primario. La paura cresce, alimentata dalle imprevidenza e incapacità di chi dovrebbe governare con saggezza anche le emergenze. Proprio come è accaduto anche a noi durante il difficile periodo della pandemia. Quello che manca ai romani però, e quindi metaforicamente anche a noi, perché la verosimiglianza dei personaggi ci porta a condividere il loro destino, non è sicuramente solo l’acqua.

Sono tutti assetati di “redenzione” e infatti  la scena più bella del film è appunto quella di sapore biblico, in cui Giuseppe accompagna Maria lungo il greto  del Tevere riarso.  Li contempla con stupore e speranza uno dei personaggi, forse il più derelitto, magnificamente interpretato da Silvio Orlando, un carcerato di lungo corso che in modo grottesco si ritrova libero in una città che non riconosce più. Quasi a dire che quello che davvero desideriamo appartiene a una dimensione profondamente spirituale, è già accaduto e  si ripete persino negli scenari più apocalittici. È la promessa di un Salvatore, ribadita con  efficacia in un altro momento commovente della pellicola, con la preghiera del Papa (nel film con i tratti e le movenze di Pio XII) che invoca la pioggia. Quest’ultima scena riecheggia in modo impressionante quella dell’attuale Papa Francesco, che tutti ricordiamo nel venerdì santo del 2020, sotto scrosci battenti, in una piazza San Pietro spettrale, quando chiedeva con umile insistenza la liberazione dalla pandemia.

Se questa è la vera chiave di lettura del film, allora tutte le storie dei personaggi, straniti e ognuno a modo suo fragile e ferito, rispecchiano un’attesa di redenzione che vuole trovare un compimento. Ci sono un ex autista di auto blu (un ottimo Valerio Mastandrea) che si ricicla come conducente su prenotazione, tormentato da visioni e colpi di sonno e che ci fa sorridere con tenerezza; Tommaso Ragno che interpreta  un egocentrico ex attore disoccupato, ossessionato dai social, che si fa mantenere dalla moglie che fa la cassiera e vuole tradirlo; una tenace dottoressa ospedaliera (una convincente Claudia Pandolfi) che combatte con determinazione una nuova malattia che fa addormentare chi contrae un virus sconosciuto, ma nella vita sentimentale, con il suo compagno, non è affatto felice. E poi c’è lo splendido Max Tortora, un miserabile ex commerciante di camicie in bancarotta, che rimpiange i fasti del passato e si fa pagare la pizza da un immigrato africano, immigrato che assurge alla platea dei media come guida per i romani, perché imparino come risparmiare acqua da chi di acqua non ne ha mai avuta molta. Insomma. una carrellata di tipi umani più o meno derelitti, a volte incattiviti, in qualche caso capaci di dolcezza, che incrociano i loro destini in attesa della pioggia rigeneratrice.

L’acquazzone tanto agognato alla fine arriverà, una benedizione che è appunto metafora di una salvezza che viene proprio dall’alto, dal cielo. Le note di Mi sei scoppiato dentro il cuore di Mina accompagnano nel finale di Siccità la promessa e la gioia. che vincono sull’aridità della terra e dei nostri cuori. Quello di Virzì non è dunque innanzitutto un film sulla crisi climatica, da cui il nostro mondo sembra ossessionato. Certo, la pellicola è uscita con un tempismo perfetto, ma non voluto (visti i tempi di gestazione) a ridosso di un’estate rovente e totalmente asciutta, che ha davvero inaridito i nostri panorami abituali, facendo seccare senza pietà piante e prati. Ma ciò che il regista ha voluto dimostrare, attraverso le storie dei suoi personaggi, che in qualche modo rispecchiano la nostra società, è che in un mondo sempre più in crisi il bisogno dell’uomo è più che mai quello di redenzione. Forse, se fossimo meno distratti e prigionieri dei media e di luoghi comuni, guardando al fondo del nostro cuore potremmo accorgercene tutti.