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L'ANALISI

Quando il Papa fa il picconatore

Un salvagente per Conte, uno sberlone alla CEI, un allontanarsi delle Messe con popolo. Sono questi i risultati dell'esternazione di papa Francesco ieri mattina nella Messa a Santa Marta, interpretata generalmente come una sconfessione delle mosse della CEI. Ma c'è molto di più...

Editoriali 29_04_2020

Qualunque fosse l’intenzione del Papa ieri mattina, non c’è dubbio che l’effetto delle sue parole alla Messa delle 7 in Santa Marta sia stato quello, in un sol colpo, di aver offerto una ciambella di salvataggio al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che da domenica sera era sulla graticola; di aver fatto deragliare la Conferenza Episcopale Italiana (CEI), costretta a subire un secondo, doloroso, schiaffone nel giro di tre giorni; di allontanare la ripresa delle Messe con popolo.

Andiamo con ordine (per la ricostruzione degli avvenimenti degli ultimi giorni, clicca qui) : dopo la sconcertante conferenza stampa di domenica sera, su Conte sono piovute un mare di critiche, ma a fare rumore è stata soprattutto la pronta nota della CEI che, con un linguaggio inusualmente forte, dichiarava di non accettare il prolungarsi del divieto di Messa con popolo. La durezza della reazione ha fatto convergere sul tema delle Messe tutti gli insoddisfatti, per un motivo o per l’altro, dell’operato di Conte e ha risvegliato dal torpore molti vescovi.
Lunedì dunque c’è stato un vero e proprio fuoco di fila contro il presidente del Consiglio: politici della maggioranza e dell’opposizione tutti sul carro della CEI; le regioni Lombardia e Friuli Venezia Giulia (a guida leghista) si sono messe in moto per trovare il modo di garantire le Messe almeno in queste regioni; e diverse conferenze episcopali sono scese in campo a fianco della presidenza CEI per fare pressioni sul presidente del Consiglio che, mai come lunedì sera, è apparso debole e solo.

Poi d’incanto, martedì mattina, quella mezza frase del Papa sulla necessità della «prudenza» e della «obbedienza» alle disposizioni delle autorità per scongiurare il ritorno dell’epidemia, ha seminato confusione e smarrimento tra le truppe ormai prossime a divorarsi il presidente del Consiglio. E ora Conte, incassato il sostegno del Papa, riprende fiato e anche con la Chiesa tratta da una ben diversa posizione.

Già, la Chiesa. I fedeli guardano attoniti a quanto sta accadendo. Ma come, viene da chiedersi, la CEI ha agito e reagito senza avere il consenso del Papa? Ben difficile, tanto è vero che – a quanto ci è dato sapere - anche la Segreteria di Stato si stava muovendo per riaffermare alcuni principi stabiliti dal Concordato e bellamente violati dal governo Conte. Ora tutto è bloccato. Allora, cosa è successo? Difficile dirlo, possiamo solo constatare che non è certo la prima volta che il Papa manda avanti i suoi collaboratori e poi si defila al momento opportuno, lasciandoli soli. L’ultimo caso è stato quello delle chiese fatte chiudere a Roma e poi fatte riaprire – con il solito sistema della Messa delle 7 a Santa Marta – dopo che aveva spinto il cardinale vicario di Roma e la CEI a prendersi la responsabilità della chiusura. E anche in questo caso si ricorderà che era stata proprio un’altra omelia a Santa Marta a spingere per superare la fase delle Messe in streaming («Questa non è la Chiesa», aveva detto).

Sta di fatto che dopo lo sberlone ricevuto da Conte domenica sera, ieri la CEI se ne è preso un altro dal Papa. E stavolta nessuna reazione rabbiosa, ma capo chino a cercare di rimettere insieme i cocci. Le trattative con il governo, strada che comunque la CEI aveva già intrapreso, proseguono ma con tanta “prudenza” e “obbedienza”.

Così anche per il ritorno delle Messe con popolo salta tutto. Ieri mattina diversi giornali davano per certo che, dopo la sollevazione generale, Conte avrebbe fatto in modo di concedere le Messe a partire dal 10 maggio, in pratica come ci si attendeva domenica. Ma dopo l’intervento del Papa tutto sembra tornato in alto mare. Forse sarà dato un contentino concedendo le Messe all’aperto (e se piove?) dall’11 maggio ma per le Messe in chiesa una decisione sembra ora che non ci sarà prima del 18 e forse anche più tardi.

Nel suo insieme la vicenda mette in risalto tutti i limiti di un approccio al problema delle Messe di carattere essenzialmente politico, come avevamo già denunciato ieri. La CEI si è presentata al governo – e continua a farlo - per strappare delle concessioni, come fosse il sindacato dei preti, e non per affermare la propria libertà e la propria missione. Allo stesso modo il servizio al bene comune viene ridotto alle opere assistenziali a favore dei poveri, quando è invece proprio la Messa il primo contributo al bene comune.

È una posizione di estrema debolezza, quella dei vescovi, incapace di dare le ragioni riguardo al senso della presenza della Chiesa. In questo modo sfocia facilmente in clericalismo, con il giudizio che cambia a seconda degli umori del capo. La domenica fanno fuoco e fiamme a difesa di certi valori, il martedì diventano improvvisamente “prudenti” e obbedienti”. In altre parole, è una gerarchia il cui giudizio e la cui presenza dipende da calcoli politici (in senso lato) e dalle opportunità del momento, non dall’affermazione della Verità a cui anche il papa deve sottostare.

In questa vicenda il tema vero è la libertà della Chiesa, che è garanzia di libertà per tutti, e come tale non può essere considerata merce di scambio. Se non si afferma con chiarezza la libertà della Chiesa dallo Stato (peraltro garantita dal Concordato), le trattative con il governo diventano tentativo di ricavarsi degli spazi di privilegio, che inesorabilmente si faranno sempre più angusti.

Un’ultima questione: per quanto ci abbiamo ormai fatto il callo, non possiamo abituarci ad assistere a una guida della Chiesa, a un magistero, che dipende da frasi buttate lì durante una conferenza stampa o una omelia a Santa Marta. Se il Papa ha qualcosa da dire, un intervento da fare, ha tutti gli strumenti per farlo in modo chiaro, a cominciare dal colloquio diretto con le persone interessate. Le frasi lanciate così, in modo vago e generico, che dato il contesto sono una chiara scelta di campo ma si prestano anche a diverse interpretazioni, non sono degne di un Papa. Il popolo ha bisogno di parole chiare, soprattutto di parole che indichino la strada della salvezza e non di parole indirizzate a risolvere problemi politici, fossero anche ecclesiali.