No ai cellulari in classe, un divieto salutare
Ascolta la versione audio dell'articolo
Per qualche preside proibire i cellulari in classe, come disposto dal governo, sarebbe un fallimento educativo. Ma tutto il Codice penale esiste proprio per tamponare fallimenti educativi. Il problema è che la scuola di oggi è figlia del Sessantotto.

Leggo un articolo su La Stampa del 24 giugno scorso: riguarda il divieto dei cellulari in classe e il titolo avverte che, per i presidi, «proibire è un fallimento educativo». Data la fonte, tuttavia, sorge il sospetto che se il provvedimento fosse stato emanato da un governo di sinistra sarebbero fioccati gli applausi. Ma vediamolo, il fallimento educativo.
Tutto il Codice penale esiste proprio per tamponare i fallimenti educativi, sia della famiglia che della scuola. Non solo. Perché un divieto, una proibizione, un altolà non sarebbero educativi? Rivediamo il dizionario: “educazione” è addestramento all’autodisciplina, “istruzione” è immissione di nozioni nella memoria. La scuola si occupa solo della seconda. Della prima dovrebbero occuparsi la famiglia, l’oratorio, il catechismo.
C’è da dire che a ogni piè sospinto è invalso il vezzo di addossare alla scuola tutti i problemi sociali. Si grida (sempre dalla solita parte) all’introduzione di: educazione sessuale, educazione alla legalità, educazione all’affettività, educazione all’antimafia e all’antirazzismo, educazione alla diversità, educazione stradale e via sproloquiando. Che, se queste materie dovessero effettivamente venire introdotte nei programmi scolastici, non resterebbe tempo per altro, e la scuola si tramuterebbe in una madrassa woke di massa. E le università dovrebbero chiudere per mancanza di studenti in grado di sopportarle. Così, senza laureati, il Paese andrebbe a ramengo.
Il fatto è che l’agonia della scuola di Stato comincia col Sessantotto, inteso come rivoluzione, riuscita, in interiore homine. Ora, ogni regime ideologico, per garantirsi l’eternità, cerca di mettere le mani sulla scuola. Non a caso, la scuola statale obbligatoria e uguale per tutti è invenzione giacobina. Quella “liberale” savoiarda, altrettanto giacobina, ha il suo manuale in Cuore di De Amicis. Poi scuola littoria, Hitler-Jugend (Gioventù hitleriana), Komsomol sovietico… è vero, il Sessantotto non instaurò un regime in senso politico (perché non riuscì), ma in Italia la scuola “gentiliana” era in mani democristiane, perciò bisognava sabotarla in tutti i modi.
Ed eccoci a oggi. I presidi. Con qualche eccezione (qualche) si tratta di ex insegnanti che, di fronte ad aule i cui frequentatori hanno tutti i diritti e nessun dovere, hanno gettato la spugna. Solo che nella nuova poltrona erano attesi da bande di insegnanti sindacalizzati il cui unico scopo lavorativo era rendere la vita difficile all’autorità, oltre alla pletora di scartoffie che ogni nuovo ministro della pubblica istruzione si era incaricato di aumentare per distinguersi dal predecessore. Non mi dilungo in aneddoti personali della mia, grazie al Cielo breve, esperienza come insegnante di liceo. I curiosi potranno utilmente leggere il libro che li contiene, L’ombra sinistra della scuola (Piemme, riedito da Chorabooks). Basti pensare che, una volta, il ministro di allora (Dc) mi obbligò a stilare statistiche su voti, presenze e altro: ore e ore per raccapezzarcisi, astrusi e complicati moduli da riempire, la calcolatrice nell’altra mano. A che pro? Boh, nessuno lo seppe mai. Ma tant’è.
Ora, le dernier cri eccolo: il cellulare. Vietarlo? Sarebbe il minimo, visto che anche in altre istituzioni pubbliche bisogna lasciarlo all’ingresso senza che nessuno faccia una piega. Ma, visto che ci siamo, perché non vietare anche di pomiciare nei corridoi scolastici durante la ricreazione? Seeh, vallo a dire a quelli che insistono per introdurre l’erogatore di preservativi. Come ho già scritto, la scuola di Stato va abolita tout court: questo è l’unico divieto che veramente conta. Ma vallo a dire anche a questo governo, pur esso portatore ed erede di ideologie stataliste.