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CONTINENTE NERO

Milioni di morti in più, se UsAid taglia gli aiuti ai paesi africani

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Gli aiuti alla cooperazione e sviluppo di UsAid sono stati sospesi dall'amministrazione Trump. I paesi africani temono il contraccolpo: grazie a UsAid si sono salvate decine di milioni di vite. Ma i governi africani non possono farne a meno?

Esteri 03_07_2025 Español
Se l'Africa vive solo grazie a UsAid (La presse)

Senza gli aiuti umanitari Usa, nei prossimi cinque anni potrebbero morire più di 14 milioni di persone, inclusi 4,5 milioni di bambini sotto i cinque anni. A sostenerlo è una ricerca di cui The Lancet, la nota rivista scientifica specializzata in campo medico, ha appena pubblicato i risultati. Per arrivare a questa conclusione, gli autori della ricerca hanno verificato gli effetti degli interventi umanitari americani nel mondo nell’arco di 20 anni, il loro impatto sui paesi in cui sono stati realizzati. Questo ha permesso loro di elaborare delle proiezioni su che cosa succederà nel caso vengano a mancare.

Dall’esame dei dati relativi a 133 paesi risulta che tra il 2001 e il 2021 nei paesi in via di sviluppo, a reddito basso e medio, gli aiuti Usa hanno salvato la vita a 91 milioni di persone, tra cui 30 milioni di bambini. Il risultati più importanti sono stati ottenuti nella lotta all’Hiv/Aids, con una riduzione della mortalità del 65%, nella prevenzione e cura della malaria, 51%, e delle malattie tropicali, 50%. «Per molti paesi a basso e medio reddito, lo shock derivante dalla cancellazione degli aiuti umanitari Usa sarebbe paragonabile per portata a una pandemia globale o a un grave conflitto armato – ha spiegato Davide Rasella, coautore dell’articolo pubblicato su The Lancet e ricercatore presso il Barcelona Institute for Global Health – i tagli ai finanziamenti  rischiano di interrompere bruscamente, e persino di invertire, due decenni di progressi raggiunti in ambito sanitario per le popolazioni vulnerabili».

Fedele al suo programma politico, il presidente Donald Trump, poche ore dopo il suo insediamento alla Casa Bianca lo scorso gennaio, ha sospeso temporaneamente i programmi di assistenza realizzati nell’ambito della cooperazione internazionale allo sviluppo, molti dei quali affidati a organizzazioni non governative e a collaboratori locali. Lo ha fatto con uno dei suoi primi ordini esecutivi: Rivalutare e riallineare gli aiuti esteri degli Stati Uniti. Nella convinzione che non tutti gli aiuti internazionali siano allineati con gli interessi americani e in molti casi siano antitetici ai valori americani – spiegava l’ordine esecutivo – è sospesa con effetto immediato l’assunzione di impegni con e l’erogazione di fondi a paesi stranieri e a organizzazioni non governative per 90 giorni al termine dei quali si deciderà quali programmi continuare, modificare o interrompere.

Le verifiche erano iniziate subito e nel mirino degli ispettori per prime erano finite le attività dell’UsAid, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, il principale organo governativo preposto all’erogazione degli aiuti internazionali che da solo provvede alla gestione di 40 dei quasi 70 miliardi stanziati ogni anno da Washington per la cooperazione internazionale, equivalenti ad almeno il 38% di tutti i contributi pubblici e privati registrati dalle Nazioni Unite. A marzo, dopo sei settimane di verifiche, il segretario di stato Usa Marco Rubio aveva annunciato che erano stati cancellati l’83% dei programmi UsAid. I circa mille rimasti – disse – da quel momento sarebbero stati gestiti in maniera più efficiente, sotto la supervisione del Dipartimento di Stato e con la consulenza del Congresso.

In un precedente editoriale, pubblicato il 22 marzo, The Lancet si domandava: «Dal momento che anche paesi come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania (i più generosi contribuenti dopo gli Stati Uniti, n.d.A.) stanno riducendo i fondi per gli aiuti, chi o che cosa può colmare il vuoto?» «Il sistema degli aiuti è tutt’altro che perfetto – commentava l’editoriale – per anni i critici ne hanno evidenziato i difetti intrinseci, sostenendo che gli aiuti alimentano la dipendenza anziché promuovere lo sviluppo a lungo termine. In molti paesi gli aiuti si sostituiscono alle risorse nazionali con inoltre miliardi persi a causa di frodi, cattiva gestione e corruzione».

Nonostante tutto – sprechi, corruzione, insuccessi, progetti mal concepiti… – l’UsAid ha evitato la morte di oltre 90 milioni di persone in 20 anni. 30 milioni di bambini, che sarebbero morti, sono invece sopravvissuti e sono diventati adulti.

Il taglio Usa e di altri paesi donatori di fondi alla cooperazione internazionale mette oggettivamente in difficoltà centinaia di milioni di persone: a meno che, come The Lancet e altri osservatori suggeriscono, non diventi, come potrebbe, una opportunità per ripensare l’intera gestione degli aiuti globali. Meglio sarebbe, allora, se fossero i governi dei paesi che più dipendono dagli aiuti internazionali a cogliere l’opportunità dei tagli per assumersi finalmente la responsabilità dei servizi sanitari, e non solo, finora forniti dalla cooperazione internazionale, invece di continuare a riversare sul resto del mondo, dell’Occidente soprattutto, la colpa di povertà e mancato sviluppo per salvare la loro immagine agli occhi dei connazionali. Meglio sarebbe se i tagli fossero l’opportunità per le popolazioni che ne hanno beneficiato finora di rendersi conto di quanto devono agli aiuti internazionali e quanto questi aiuti sopperiscano ai servizi che per incuria e corruzione i loro governi non si preoccupano di assicurare.

Il continente che ha beneficiato maggiormente dell’UsAid e in generale della cooperazione internazionale è l’Africa dove si registrano il 94% dei casi di malaria, vivono due terzi dei malati di Aids e scoppiano la maggior parte delle epidemie causate da malattie tropicali. Lo scorso febbraio Jean Kaseya, direttore dell’Africa Centres for Disease Control and Prevention, si è rivolto a Marco Rubio: «Come possiamo affrontare le epidemie senza più finanziamenti?» ha protestato. Ha poi scritto ai capi di Stato e di governo africani avvertendoli che senza un intervento urgente per compensare i finanziamenti venuti meno a causa della sospensione degli aiuti Usa e ai tagli dei fondi per gli aiuti internazionali annunciati da altri governi, in Africa si prevedono da due a quattro milioni di morti in più all’anno. Alcuni paesi africani hanno orgogliosamente reagito dicendo che d’ora in poi faranno da sé. Uno è l’Uganda. Il suo ministro dell'Informazione, Chris Baryomunsi, a nome del governo ha affermato che l'Uganda è perfettamente in grado di provvedere a se stessa senza dipendere dall'assistenza straniera.

Intanto il 30 giugno a Siviglia, alla quarta Conferenza internazionale sul finanziamento allo sviluppo, i capi di Stato e di governo africani convenuti hanno come di consueto reclamato aiuti per far fronte ai cambiamenti climatici di cui sostengono di subire ingiustamente i danni, la rinegoziazione e cancellazione del debito estero, nuovi finanziamenti. Preoccupato per l’assenza degli Stati Uniti alla conferenza, il presidente del Kenya, William Ruto ha preso la parola: «Esorto gli Stati Uniti – ha detto – a riconsiderare la loro posizione. I finanziamenti internazionali restano indispensabili per l’Africa. L’Africa non chiede favori. Vogliamo giustizia, correttezza, partnership e investimenti». Ai paesi presenti ha chiesto di sottoscrivere il documento finale che prevede impegni finanziari per 4 trilioni di dollari per la realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.