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L’ANNIVERSARIO

Maderna, che bellezza il Requiem ritrovato

Cento anni fa nasceva a Venezia il compositore e direttore d’orchestra Bruno Maderna (1920-1973). Che in gioventù scrisse un immenso Requiem. A lungo perduto, il manoscritto venne ritrovato solo nel 2006 ed eseguito postumo. Vi si coglie uno stile compositivo maturo e intensamente drammatico.

Cultura 21_04_2020

Esattamente cento anni fa, il 21 aprile 1920, nasceva a Venezia uno dei nomi più in vista nel panorama della nuova musica italiana del secondo dopoguerra: il compositore, direttore d’orchestra e didatta Bruno Maderna (1920-1973).

Scorrendo i suoi cenni biografici, cogliamo il suo ruolo di caposcuola indiscusso del suo tempo: allievo di Alessandro Bustini a Roma e di Gian Francesco Malipiero a Venezia, assimila l’espressionismo austro-tedesco e la tecnica dodecafonica; per la voglia di sperimentare, accanto a Luigi Nono e Luciano Berio, è tra i primi ai Ferienkurse für Neue Musik (Corsi estivi di composizione per la Nuova Musica) di Darmstadt e nella produzione elettronica.

Tra il 1944 e il 1946 (il manoscritto si chiude con «Venezia-Settembre 1946»), scrive il Requiem, per soli, coro e orchestra; considerato a lungo perduto, il manoscritto è stato ritrovato nel settembre 2006 dal musicologo Veniero Rizzardi nella Biblioteca del Purchase College della State University a New York; è stato eseguito per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia il 19 novembre 2009.

In una lettera del 31 agosto 1945, così Maderna scrive a Malipiero: «Ho ripreso la composizione del Requiem, da molti mesi interrotto per ovvie ragioni, e spero riuscirò condurla a termine bene. Questo lavoro sarà veramente una tappa per me» (B. Maderna, Requiem, a cura di V. Rizzardi, Edizioni Suvini Zerboni, Milano 2006, p. VI).

Di questo lavoro giovanile, che alla fine della Seconda Guerra Mondiale è forse lo sforzo più importante per un compositore ventiseienne, il 23 gennaio 1970 durante unintervista radiofonica a Chicago Maderna ricorderà l’importanza e, amareggiandosi della sua sparizione, dirà: «Quello per me fu una specie di biglietto da visita; oggi sembrerebbe un lavoro alquanto naif; tuttavia in quel momento l'unica possibilità era di scrivere un Requiem e poi morire» (in R. Fearn, Bruno Maderna, Contemporary Music Studies, 3, New York: Harwood Academic Publishers, 1990, p. 299).

È circa un’ora di musica, concepita per un imponente organico: quattro voci soliste, doppio coro e grande orchestra senza legni, ma con tanti archi, ottoni, percussioni e tre pianoforti: «Si raccomanda - annota il compositore all’inizio della partitura - una massa darchi il più numerosa possibile […]. Per ovvie ragioni di equilibrio si sconsiglia di adoperare un coro minore di 80 voci». La partitura è divisa in due parti: introito (Requiem æternam), Kyrie e sequenza (Dies iræ) nella prima parte; offertorio (Domine, Iesu Christe), Sanctus, Benedictus, Agnus Dei, communio (Lux æterna) e il responsorio Libera me, Domine, nella seconda.

Si coglie uno stile compositivo maturo e intensamente drammatico che, pur testimoniando l’interesse per la musica antica (gli ottoni senza legni evocano un’atmosfera arcaica) e per la polifonia rinascimentale ereditato da Malipiero, fa riferimento alla terribile Grande messe des morts di Hector Berlioz (di cui abbiamo trattato qui) e al doloroso ed emozionante Requiem di Giuseppe Verdi. Nei ritmi, marcati dai tre pianoforti e dalle percussioni e intrecciati con le altre parti, si sentono echi di Igor’ Stravinskij e di Béla Bartók. Il sapiente uso dell’armonia, né tonale né modale, e del contrappunto (non v’è traccia della tecnica dodecafonica a cui Maderna si era già avvicinato) si richiama a Paul Hindemith e al suo fondamentale Unterweisung im Tonsatz (Manuale di composizione) del 1937.

In particolare, possiamo ascoltare momenti che incutono terrore e sono pieni di ritmo e di suono, alternati a tratti cantabili quasi malinconici. Tra i primi ricordiamo: il Dies iræ, il poema medievale che illustra il grande giorno del giudizio finale, nel quale «in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba… i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati» (1Cor 15,52); il Domine, Iesu Christe, in cui si prega direttamente per la liberazione dalle pene del Purgatorio delle «anime dei veri penitenti, morti nell'amore di Dio prima di aver soddisfatto con degni frutti di penitenza ciò che hanno commesso o omesso» (Eugenio IV, Lætentur cæli, 6 luglio 1439); e il Sanctus, in cui la Chiesa si unisce agli angeli per celebrare la maestà del Dio tre volte santo, come il profeta Isaia ha sentito proclamare dai serafini al momento della sua investitura e missione (Is 6,3). Tra i secondi c’è: il Benedictus, con cui «la folla che lo precedeva e quella che lo seguiva» (Mt 21,9) acclamava il Signore nel suo ingresso messianico a Gerusalemme; e l’Agnus Dei, dove una molto bella siciliana - un’antica danza di movimento moderato e in tempo ternario (6/8 o 12/8) - riconosce il Cristo Redentore, l’«agnello condotto al macello» (Is 53,7), indicato da Giovanni Battista come «colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29) e da Giovanni Evangelista come l’Agnello redentore (Ap 7,14).

Questo Requiem è tutt’altro che «un lavoro alquanto naif». Può sembrare un immenso Dies iræ piuttosto che un Requiem pietoso: Maderna, che arriva ad escludere alcune parti del testo liturgico, dà il massimo risalto al momento per essenza più drammatico di tutta la Messa per i defunti. Troviamo tre volte quel testo: la prima, cantato in doppio coro di 4+4 voci e poi da un coro a 6; la seconda, intonato da un coro misto a 4 voci, poi dal coro femminile e infine da un coro a 8; la terza, eseguito da un coro misto a 6 voci, poi dal doppio coro, poi ancora da un coro a 4 voci e infine dal doppio coro. Tuttavia, questo Requiem è un’opera di musica sacra - l’unica, ci pare - molto significativa nel catalogo di un compositore «profondamente laico» e nel repertorio sinfonico-corale del Novecento.