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Castigo divino? È l'effetto del rifiuto di Dio

«Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi» così inizia l’Atto di dolore secondo la prima delle dieci formule presenti nel Rito del sacramento della penitenza o confessione. Lo diciamo più chiaramente: i nostri peccati hanno meritato i castighi di Dio. Ma quali sono questi castighi? E perché sono detti “di Dio”? Ecco cosa insegna la Chiesa.
- DIO PERDONA, IL VATICANO NO, di Riccardo Cascioli

Ecclesia 06_11_2016
Cecco del Caravaggio, I mercanti

Il caso Cavalcoli-Radio Maria ha fatto emergere il tema del castigo divino, non soltanto relativo alle catastrofi naturali ma anche in rapporto alla Misericordia. Come si scriveva ieri, per certi ecclesiastici ormai è la stessa parola castigo che va cancellata, ma è un concetto biblico che non è lecito censurare. Cogliamo perciò l'occasione di questa polemica per riproporre l'insegnamento della Chiesa su questo tema.  

«Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi» così inizia l’Atto di dolore secondo la prima delle dieci formule presenti nel Rito del sacramento della penitenza o confessione. Lo diciamo più chiaramente: i nostri peccati hanno meritato i castighi di Dio. Ma quali sono questi castighi? E perché sono detti “di Dio”?

Il castigo per antonomasia è l’inferno. Ora quando parliamo di queste realtà dobbiamo tenere a bada la nostra immaginazione e la tentazione di trasferire a Dio quanto di più umano c’è. In particolare dovrò fare attenzione a non immaginarmi l’inferno come lo ha descritto Dante, cioè come un luogo. L’inferno è primariamente una condizione che consiste nella separazione eterna da Dio. È una diretta «conseguenza di una avversione volontaria a Dio, cioè di un peccato mortale, in cui si persiste fino alla fine» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1037). Il peccato grave, cioè l’omissione o l’atto deliberatamente voluti sapendo che sono contrari alla volontà divina che è segnalata dal Vangelo e dai comandamenti, esclude dal regno di Cristo, dalla sua eredità di amore e di gioia.

Il Cardinal Biffi, in Linee di escatologia cristiana notava che: «Ogni vera colpa è sempre rinuncia totale e definitiva alla legge di Dio e perciò a Dio stesso. Rinuncia totale, perché accettare la sua volontà parzialmente significa non accettarla come una volontà divina, che per forza deve essere la norma incondizionata di tutto. Rinuncia in se stessa definitiva, perché accettarla temporaneamente, sospendendone l’efficacia anche solo per un istante, significa rifiutarla come norma eterna, cui non ci si può mai sottrarre. Ma l’inferno nella sua vera essenza non è che un distacco totale e definitivo da Dio. Il che significa che il peccatore ottiene nell’inferno ciò che col peccato ha voluto ottenere. Il mistero della condanna si risolve quindi nel mistero della colpa. E se talvolta l’inferno ci potrà apparire come un assurdo psicologico, la cui considerazione ci è insopportabile, è perché il peccato stesso, che pure è una realtà della nostra vita, è un assurdo psicologico e una inspiegabile mostruosità. In fondo tutto ciò ci dice che non è Dio che tiene gli uomini lontano da sé nell’inferno, ma sono gli uomini a ostinarsi nel voler stare lontani da lui» (p. 58).

Difatti Dio è sempre alla porta della nostra anima, bussa in ogni istante e non si stanca di andare alla “ricerca della pecora perduta” e il peccatore, finché è in questa vita, può sempre pentirsi, cambiare vita e chiedere il perdono e la riconciliazione a Dio.

L’uomo, in quanto è creatura, è radicalmente dipendente da Dio. È Dio che crea, creare significa dare l’essere, e esser creato significa ricevere attualmente l’essere. Poi, ognuno di noi è creato in Cristo e in vista di Cristo (Colossesi 1,16-17). Questa relazione con Dio creatore e con Cristo è irrinunciabile, è per sempre. Quindi, è anche nel peccatore che la contraddice con la colpa personale ed è anche nel dannato. Per di più il dannato si trova in una condizione peggiore, perché di là sa senza alcun dubbio e senza alcun velo che Dio è misericordia che salva, il dannato vede Dio nella sua identità. Ma la volontà del dannato è ostinatamente chiusa nel rifiuto, nell’odio e nell’oblio di Dio. Quindi il dannato soffre una profonda divisione interiore: con la sua intelligenza sa che Dio è misericordia, con la sua volontà è fisso nel rifiuto di Lui. Questa è la pena più atroce.

Come si vede è un castigo che il dannato si infligge da se stesso e a causa dei suoi peccati. Avrebbe avuto la possibilità di pentirsi, di cambiar vita e di chiedere il perdono e la misericordia a Gesù Cristo, invece si è chiuso in se stesso rifiutando la grazia e l’amore di Gesù.

Quindi, è un castigo che il peccatore si auto-infligge. Allude a questo il profeta Geremia che avverte così il popolo ribelle: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio» (Geremia 2,19). Ce lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica n. 679: «Il Figlio non è venuto per giudicare, ma per salvare e per donare la vita che è in lui. È per il rifiuto della grazia nella vita presente che ognuno si giudica da se stesso, riceve secondo le sue opere e può anche condannarsi per l’eternità rifiutando lo Spirito d’amore». «Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola “inferno”» (n. 1033).

Accanto al castigo eterno ci sono dei castighi non eterni, cioè dei danni temporali, che sono sempre conseguenza diretta di una colpa volontaria. Sempre il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1861) ricorda la perdita dell’amore di carità e della grazia santificante. Questa è la vera disgrazia, perdere la grazia in senso proprio. La grazia santificante è quella condizione di cui parla Gesù in questi termini: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23). Essere in grazia significa abitare, vivere e agire in Dio, in piena comunione di amore con lui, e significa anche che Dio ci ispira, ci muove, ci trasforma, ci divinizza, ci configura a Cristo. Perdendo la grazia perdiamo questa comunione, da capolavoro divino diventiamo mostruosi, da deiformi diventiamo deformi. 

Altri castighi, danni temporali possono essere degli effetti negativi della colpa che lo stesso peccatore sperimenta. Pensa ad esempio alla menzogna o alla falsità: la persona bugiarda o falsa subisce un danno certo, la perdita della fiducia nelle relazioni sociali di alcune colpe personali. Pensa all’odio volontario, la cui prima vittima è proprio colui che nutre odio. Oppure pensa che un peccato può trascinare ad altri peccati e può generare il vizio.

Non abbiamo poi elementi per dire che gli accadimenti della vita siano dei castighi. Anzi il Vangelo ci suggerisce il contrario. Luca 13,1-5: «Si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo».

Questo insegnamento di Gesù è rivoluzionario per la mentalità ebraica del tempo secondo la quale le disgrazie, anche accidentali, della vita sarebbero state una conseguenza del peccato personale. Gesù nega per ben due volte che ci sia un legame tra quelle due tragedie e la condotta delle vittime, e invita a leggere negli eventi, anche accidentali, degli inviti alla conversione, cioè ad ascoltare, amare lui e servire i fratelli. Un insegnamento analogo lo dà davanti al cieco nato dicendo: Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è perché in lui [cioè nel cieco nato] siano manifestate le opere di Dio (Giovanni 9,3).

Perché, infine, diciamo “ho meritato i tuoi castighi”? Perché li riferiamo a Dio? Abbiamo visto che il dannato si auto-esclude dalla misericordia salvifica di Dio e il peccatore si auto-esclude dalla grazia santificante. Abbiamo perciò purificato le nostre considerazioni da immagini antropomorfiche di Dio, come se Dio attivamente infliggesse castighi. Questo non è il volto di Dio, Misericordia che salva e ama. Ma perché allora sono “castighi di Dio”? Perché Dio è implicato in essi in quanto è negato in essi. Il peccatore sceglie deliberatamente di agire voltando le spalle a Dio, contraddicendo la sua volontà di amore. Il dannato è irrimediabilmente chiuso nel rifiuto di Dio. 

«Chi è causa del suo male pianga se stesso» e «Finché c’è vita c’è speranza» sono due espressioni proverbiali che sintetizzano il tragico mistero delle nostre colpe e la tensione esistenziale alla conversione dei pensieri e del cuore.