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Carducci, il dolore per un passato irripetibile

La dimensione della memoria e il ritorno ai luoghi dell’infanzia pervadono la poesia Dinanzi a San Guido presente nella raccolta carducciana Rime nuove. Ai ritorni impossibili si alternano le partenze laceranti che separano il poeta dall’amata Lidia. Il passato è rimpianto e impossibile da ripetere, per un poeta laico e positivista che, negli ultimi anni, si convertì.

Cultura 21_05_2017
San Guido

La dimensione della memoria e il ritorno ai luoghi dell’infanzia pervadono la poesia Dinanzi a San Guido presente nella raccolta carducciana Rime nuove. Nei versi sembra incarnarsi quanto avrebbe più tardi scritto Pascoli nella Lettera prefatoria dei Primi poemetti: «Il ricordo è del fatto come una pittura: pittura bella, se impressa bene in anima buona, anche se di cose non belle. Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo. Quindi noi di poesia ne abbiamo a dovizia».

Durante un viaggio in treno da Civitavecchia a Livorno Carducci rivede i luoghi dell’infanzia e «i cipressetti» che lo riconoscono e si ricordano di quel Carducci bambino che lanciava i sassi contro di loro. Non portano rancore, ma anzi lo invitano a sostare, a sospendere la frenesia che anima il mondo degli adulti, a ritornare bambino e a ricordare il tempo trascorso. Pochi versi sono sufficienti a Carducci per riportare il lettore indietro nel proprio passato, ad un tempo che sembra ormai fuggito per sempre. Eppure la poesia come per magia permette di far rivivere gli anni della perduta giovinezza e i cari che non ci sono più. Il poeta apre allora un dialogo con «i cipressetti […] fedeli amici d’un tempo migliore». Volentieri resterebbe con loro, lui che ormai sa «leggere di greco e di latino» e non è più «birichino» e non lancia più sassi contro gli alberi. Come impietositisi per il poeta, gli alberi esclamano: «Ben lo sappiamo: un pover uomo tu se’». Attraverso la voce saggia degli alberi, quel Carducci, colto, acclamato e onorato, riconosce la pochezza e la miseria umana, le «eterne risse» che «ardon» ancora nel suo cuore. Di nuovo i cipressi invitano il poeta a restare; «Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,/ Che de le grandi querce a l’ombra stan/ Ammusando i cavalli e intorno intorno/ Tutto è silenzio ne l’ardente pian,// Ti canteremo noi cipressi i cori/ Che vanno eterni fra la terra e il cielo:/ Da quegli olmi le ninfe usciran fuori/ Te ventilando co ’l lor bianco velo».

Quando il poeta si congeda con un ultimo addio, ecco che i cipressi lo interrogano: «Che vuoi che diciam dunque al cimitero/ Dove la nonna tua sepolta sta?». A queste parole dinanzi agli occhi appare a Carducci la cara donna. Il ricordo ritorna a quando era piccolo. Il poeta vorrebbe ancora parlare con lei:  «O nonna, o nonna! deh com’era bella/ Quand’ero bimbo! ditemela ancor,/ Ditela a quest’uom savio la novella/ Di lei che cerca il suo perduto amor!». Carducci si ricorda della favola che la nonna gli raccontava sempre. Una principessa, costretta a sposare un uomo trasformato in porco, scopre un giorno che le vere fattezze del marito sono quelle di un bel giovane. Invece di tenere nascosta la notizia, come dovrebbe, la rivela a tutti. Dovrà allora andare alla ricerca del marito, di cui viene privata, per sette anni. Quando lo rivedrà, lo ritroverà addormentato. Carducci si ferma a questo punto della favola non riportando l’esito felice della storia. Solo ora che è adulto comprende quanto fosse vera quella favola. Amara è la riflessione dopo tanto vagare, dopo tanti anni trascorsi in ricerca. Forse il percorso della vita non è altro che un ritorno a casa:  «E quello che cercai mattina e sera/ Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,/Sotto questi cipressi, ove non spero/ Ove non penso di posarmi più:/ Forse, nonna, è nel vostro cimitero/ Tra quegli altri cipressi ermo là su». Bisognerebbe avere il coraggio di riconoscerlo e di sostare. Il viaggio della vita si dispiega in continui distacchi e partenze per riconoscere alla fine che tutto quello che cercavi ti era già stato offerto all’inizio. Il poeta ora non può più rimanere, deve ripartire e ritornare alle responsabilità dell’adulto, alla sua famiglia, da «Tittì», la figlia più piccola. «La vaporiera» riparte «ansimando». «Una leggiadra schiera» di puledri la insegue, mentre un «asin bigio» non si scomoda e rimane a rosicchiare un cardo. Quanto simile a quei puledri era il giovane Carducci! Quanto si sente simile a quell’asino il poeta, ora che ha visto la delusione che lasciano il successo, il potere, gli obiettivi raggiunti! 

Ai ritorni impossibili si alternano le partenze laceranti che separano il poeta dall’amata Lidia, nome poetico di Carolina Cristofori Piva. Il poeta le scriverà nel dicembre del 1874 ricordando il momento della separazione dell’anno prima: «Ripenso alla triste mattina del 23 ottobre 1873, quando ti accompagnai alla stazione, e tu m’involasti in un’orribile carrozza di seconda classe; […] e poi il mostro, che si chiama barbaramente treno, ansò, ruggì, stridé». Nasce così la poesia «Alla stazione in una mattina d’autunno» (Odi barbare) in strofe alcaiche. I fanali di una locomotiva a vapore in un plumbeo cielo di una mattina d’autunno, i «fanali tentati», il lungo rintocco che preannuncia la partenza cui risponde l’eco dolorosa del tedio per la separazione trasmettono una tristezza profonda, sancita dalla definitiva chiusura degli sportelli. Il «mostro» moderno, prodigio sorprendente, «va empio; con traino orribile», perché porta lontana l’amata Lidia. 

Rivivono qui episodi classici. Rivive l’incontro di Enea e Polidoro, in cui il pio troiano strappa un ramo da un cespuglio radicato sulle coste della Tracia. A quel punto Enea vede un prodigio sorprendente e orribile a raccontarsi («horrendum et dictu video mirabile monstrum»). Il treno è come quella lacerazione del ramo, porta via al poeta una parte stessa del suo corpo e della sua persona. 

Rivive qui l’episodio di Plutone che rapisce Proserpina per portarla giù nell’Ade. L’amata da «viso dolce di pallor roseo», dagli «stellati occhi di pace», dalla «bianca faccia e ‘l bel volo» è solo un sogno che si allontana, i ricordi dell’estate si contrappongono al triste autunno della separazione.

Ora il poeta non ha più un ubi consistam, un fondamento su cui fondarsi: Carducci barcolla «com’ebro», come se fosse «un fantasma». Desiderio di vita e percezione della morte, giovinezza trascorsa e vecchiaia incombente, amore e solitudine si alternano a mostrare una vita che si attende un compimento che nell’hic et nunc si può solo presagire e avvertire in segni ed indizi, non si può senz’altro ancora vivere nella sua pienezza. Nella penombra di una grotta buio e luce sono due possibilità. Dove volgiamo lo sguardo? Verso l’apertura della grotta alla ricerca del sole che illumina l’esterno o siamo rivolti verso la parte più remota della caverna? È una questione di sguardo.

Potremmo continuare in questa avventura di riscoperta di Carducci. Sospendiamo qui il percorso lasciando al lettore l’incontro personale con l’uomo-poeta. Leggere significa sempre incontrare in primo luogo una persona. Leggere significa altresì scegliere e selezionare. Bellissimo è l’etimo latino del verbo latino legere. Ciascuno di noi deve attraversare le opere degli autori, rifuggendo dall’accontentarsi delle antologie scolastiche che rappresentano selezioni già compiute da altri. 

Scoprire un  autore significa abbandonare anche la vulgata per trovare nuove voci su di lui. Così possiamo aprire una pista nuova anche sul rapporto di Carducci con la fede. A quanto risulta dal processo di beatificazione di Don Orione Carducci si confessò e si convertì negli ultimi anni. La confessione sarebbe avvenuta nel 1895. Don Giuseppe Zambarbieri racconta al riguardo: «Una notte il Carducci passò in piedi, passeggiando avanti e indietro nella sua stanza. Fu una notte assai simile a quella dell'Innominato. Al mattino si presentò all'abate Chanoux e si è confessato. Ho chiesto se vi sono prove di veridicità. Don Orione è stato di persona a Courmayeur per accertare il fatto, penso che sia stato inviato in missione straordinaria. Ed ebbe dall'abate la conferma». Abbiamo anche testimonianze relative alla morte cristiana di Carducci. Luigia Tincani, fondatrice delle Missionarie della Scuola, figlia del noto classicista Carlo Tincani, amico del poeta, scrive: «Mio padre, pur se allora non era praticante, combatteva per la difesa della religione e della Chiesa. Era Vice-presidente del Consiglio scolastico, che contava altri quattordici membri: tutti massoni [...]. Noi eravamo amiche delle figlie del custode della Certosa. Abbiamo sentito che Carducci in morte volle i Sacramenti e, malgrado la guardia feroce che gli montavano i massoni, li ebbe da un sacerdote vestito da barbiere e venuto con la scusa di fargli la barba».