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GUERRA E DIPLOMAZIA

Yemen, Iraq, Siria: con i raid gli USA "si giocano" il Medio Oriente

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L'escalation americana in chiave anti-iraniana oltre a non essere militarmente risolutiva si sta rivelando politicamente controproducente: Giordania e Iraq "abbandonano" Washington, e Damasco denuncia l'occupazione.
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Esteri 05_02_2024
Lancio di un aereo dalla portaerei Eisenhower

Tra il 3 e il 4 febbraio le forze aeree e navali statunitensi hanno colpito quasi un centinaio di obiettivi dei pasdaran iraniani, delle Forze di Mobilitazione Popolare (MUP) e di altre milizie scite affiliate all’Iran nei territori di Iraq e Siria oltre a 36 postazioni delle milizie yemenite Houthi, questi ultimi in cooperazione con le forze aeree britanniche.

Un’escalation che costituisce da un lato la risposta agli attacchi dei droni delle milizie scite alle basi statunitensi in Siria e in particolare a quella di al-Tanf, al confine tra Siria e Giordania, in cui sono stati uccisi una settimana or sono 3 militari statunitensi e altri 40 sono rimasti feriti; e dall’altro la risposta ai missili e ai droni lanciati dagli Houthi contro un mercantile e una nave militare statunitense nel Mar Rosso.

«Oggi è cominciata la nostra risposta», ha dichiarato il 3 febbraio il presidente Joe Biden, aggiungendo che «continuerà nel momento e nel luogo prescelti. Gli Stati Uniti non sono alla ricerca di guerre in Medio Oriente o in nessun’altra parte del mondo. Ma che sappiano tutti coloro che potrebbero farci del male: se farete del male agli americani, noi risponderemo».

Oltre a inviare un messaggio alle milizie filo-iraniane e alla Guardia rivoluzionaria, ha spiegato in un incontro con i giornalisti il portavoce del Consiglio di sicurezza John Kirby, i raid mirano a «indebolire» la loro capacità militare «in modo più vigoroso». Kirby ha aggiunto che gli obiettivi bombardati sono stati «scelti con cura» per evitare vittime civili, colpiti nell’arco di 30 minuti e che gli Stati Uniti hanno «prove inconfutabili» che fossero collegati ad attacchi contro il personale americano nella regione; sottolineando inoltre che gli Stati Uniti avevano precedentemente informato il governo iracheno.

Il 3 febbraio un alto responsabile americano ha riferito alla CNN che la Giordania sta partecipando all'operazione statunitense contro obiettivi sostenuti dall'Iran. L’attacco di droni che ha ucciso i 3 militari statunitensi ha centrato la Tower 22, postazione situata pochi metri all’interno del territorio giordano benché faccia parte della base militare americana situata in territorio siriano. Sebbene non vi siano state vittime giordane, il ministro delle Comunicazioni Muhannad Moubaideen aveva descritto l'attacco come "terroristico".

Come contro gli Houthi, Washington ha ammesso che gli attacchi in Iraq e Siria non hanno neutralizzato le capacità militari delle milizie scite ma solo «indebolito» e per questo il «successo» annunciato può definirsi limitato in termini militari mentre le conseguenze politiche minacciano di risultare molto gravi per gli USA e per gli alleati europei.

Baghdad e Amman hanno infatti smentito le dichiarazioni statunitensi. Il governo iracheno ha negato di essere stato informato preventivamente dei raid da Washington e ha condannato l’ennesima violazione della sua sovranità e integrità territoriale, verificatasi proprio mentre funzionari iracheni e statunitensi stanno discutendo l’uscita dalla nazione araba di tutte le forze americane e della Coalizione anti ISIS che l’Iraq ha annunciato di non voler più ospitare.

Dopo gli ultimi raid il portavoce del quartier generale delle forze armate irachene, generale Yahya Rasul Abdullah, ha dichiarato che «le città di Al-Qaim e le zone di confine irachene sono state prese di mira dai raid aerei statunitensi, in un momento in cui l'Iraq sta cercando di garantire stabilità nella regione. Questi attacchi rappresentano una violazione della sovranità irachena e rappresenteranno una minaccia che trascinerà l'Iraq e la regione verso conseguenze indesiderabili e disastrose per la sicurezza e la stabilità».
La Commissione del Parlamento iracheno per la Sicurezza e la Difesa ha invitato il governo di Baghdad a firmare rapidamente un accordo sul ritiro delle truppe della coalizione internazionale dal Paese poiché «la loro presenza in Iraq destabilizza la situazione».

Ad Amman il comando delle forze armate giordane ha negato il coinvolgimento nei recenti attacchi aerei condotti dagli Stati Uniti in Iraq. «L'Aeronautica giordana non ha partecipato agli attacchi aerei effettuati dalle forze aeree americane nei territori iracheni», ha riferito il comando mentre l'ambasciata giordana a Washington ha confutato le notizie riportate dai media di un coinvolgimento di aerei giordani nelle operazioni statunitensi.

Uno dei maggiori limiti di tutte le operazioni militari anglo-americane dallo Yemen alla Siria e all’Iraq è costituito dal fatto che sono unilaterali poiché nessuna nazione araba, neppure quelle considerate «alleate di ferro» degli USA, ha accettato di unirsi ai raid contro le milizie scite filo-iraniane o anche solo di sostenerli politicamente.  

Durissima anche la risposta di Damasco. Il ministero della Difesa siriano ha riferito in una dichiarazione che «le forze di occupazione americane hanno lanciato attacchi aerei su una serie di siti e città nella regione orientale della Siria, vicino al confine siriano-iracheno, che hanno provocato la morte di numerosi civili e soldati, il ferimento di altri provocando ingenti danni a beni pubblici e privati», accusando Washington di sostenere il rilancio dell’ISIS e dichiarando che «l’occupazione di parti del territorio siriano da parte delle forze americane non può continuare».

Occorre ricordare che, mentre la presenza militare di americani e alleati europei (spagnoli, italiani e altri) in Iraq è legittimata da un accordo che risale al 2014 e che Baghdad ora intende cancellare, la presenza americana in Siria è invece del tutto illegale e i circa mille militari schierati in tre avamposti nell’est e nella base di al-Tanf nel sud sono a tutti gli effetti del diritto internazionale aggressori e occupanti.

Il governo di Damasco guidato da Bashar Assad può non piacere all’Occidente (soprattutto perché alleato storico della Russia) ma è legittimo e riconosciuto e non ha mai invitato (a differenza di quello iracheno) truppe statunitensi a permanere sul suo territorio. Inoltre nessuna risoluzione dell’ONU ha mai autorizzato Stati Uniti o altre nazioni a schierare truppe in Siria. Non a caso quando truppe americane varcarono i confini giordani e iracheni per sostenere le milizie ribelli anti-Assad e controllare i pozzi petroliferi siriani sotto la bandiera della Coalizione anti-ISIS (Operazione Inherent Resolve), nessun alleato europeo accettò di inviare proprie truppe sul territorio siriano proprio perché mancava una copertura giuridica internazionale.

Per questo i raid americani, oltre a determinare una pericolosa escalation in tutta la regione, stanno mettendo in pericolo anche i contingenti alleati schierati in Iraq e rischiano di determinare una forte reazione in tutto il mondo arabo che potrebbe portare alla fine della presenza militare statunitense in quella regione. La “cacciata” della Coalizione dall’Iraq coinvolgerà presumibilmente anche i contingenti europei non coinvolti in azioni belliche contro le milizie scite e impedirà agli americani di sostenere e alimentare gli avamposti situati in Siria Orientale. Inoltre potrebbe risultare politicamente difficile per la Giordania continuare a permettere alle forze americane sul suo territorio di operare in territorio siriano ad al-Tanf, specie ora che sauditi, emiratini e tutte le monarchie del Golfo hanno riallacciato i rapporti con Bashar Assad.

Ieri il consigliere USA per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha ribadito la volontà di condurre ulteriori attacchi ma questa escalation, oltre a non avere effetti militari risolutivi, rischia di risultare politicamente contro producente per tutto l’Occidente rendendolo ancor più inviso a tutto il mondo arabo (questa volta senza distinzioni tra sciti e sunniti) e favorendo così l’Iran e l’influenza russa e cinese in Medio Oriente.



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