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Summit delle Democrazie: dittature invitate, democratici esclusi

Le strane scelte dell'amministrazione Biden per il Summit delle Democrazie, volto a difendere il mondo libero dagli autoritarismi. Fra gli invitati figurano anche Stati non democratici, come Angola, Iraq e Congo, o in bilico come Pakistan e Malesia. Mentre sono escluse democrazie come l'Ungheria. Che criteri sono stati adottati?

Esteri 08_12_2021
L'Iraq è fra gli invitati "democratici"

“Nessuna democrazia è perfetta, nessuna democrazia è compiuta. Ogni conquista fatta, ogni barriera abbattuta, è il risultato di un lavoro incessante e determinato”. Con queste frasi di incoraggiamento, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, dà il via al Summit delle Democrazie, le cui sessioni preliminari iniziano oggi e i cui lavori principali sono previsti per i prossimi due giorni, il 9 e il 10 dicembre. Si svolgerà online, per ovviare ai problemi ancora legati ai viaggi, in tempi di pandemia. Lo scopo del summit è soprattutto triplice: “Difesa contro l’autoritarismo, soluzioni per combattere la corruzione, promozione del rispetto dei diritti umani”. Lo scopo è nobile. L’esecuzione lascia perplessi. Molti dei Paesi invitati a partecipare non sono affatto democratici. Altri che lo sono, non sono stati invitati. E non si capisce veramente il criterio adottato nel compilare la lista degli invitati. Se esaminati alla luce della libertà di religione, poi, il quadro è ancora più desolante.

Secondo l’amministrazione Biden, nel rispondere alle proteste dei non invitati, sono stati seguiti criteri il più possibile “oggettivi” e conformi alle valutazioni dell’Onu sullo stato della democrazia. Ma anche così, i conti non tornano. Anzitutto nella lista degli invitati sono presenti Paesi che, secondo l’Indice della libertà della Freedom House, finora il più imparziale e il più utilizzato per un primo orientamento, non sono affatto liberi. Partendo dai primi invitati, in ordine alfabetico, l’Angola, il Congo (Repubblica Democratica) e l’Iraq sono classificati decisamente “non liberi”. Tanti altri Stati invitati, come l’Armenia, la Repubblica Dominicana, l’Ecuador, l’India, l’Indonesia, il Kenya, le Filippine, la Malesia, il Niger e la Nigeria e il Pakistan sono in una zona grigia, “parzialmente libera”. La maggior parte degli altri Stati parzialmente liberi, come il Bangladesh, ad esempio, non sono stati invitati. Si direbbe che il criterio del “realismo politico” abbia prevalso, invitando anche chi non lo merita solo perché alleato degli americani. Come l’Iraq, ad esempio, in cui saranno presenti truppe statunitensi fino al 31 di questo mese.

Ma nemmeno il criterio del realismo politico è sufficiente a spiegare queste scelte. Ad esempio, la Turchia è tuttora un importante membro della Nato. Si può capire perché sia stata esclusa: di democratico ha ormai solo la forma, non la sostanza. Ma è un alleato. Perché invitare altre democrazie dubbie, ma alleate, come il Pakistan (e le Filippine) e non la Turchia, a questo punto? E perché invitare non-democrazie, come l’Iraq e non una Turchia che, in confronto, è relativamente più democratica e stabile? Mistero.

Ancora più incredibile è l’esclusione dell’Ungheria, unico Paese europeo membro dell’Ue e della Nato ad essere escluso. Orban può non piacere, politicamente parlando, ma è stato eletto regolarmente (l’Ocse ha considerato regolari anche le ultime elezioni), non incarcera i suoi oppositori, non lascia mano libera a chi intimidisce gli avversari politici, è un Paese dotato di una costituzione che garantisce tutti i diritti della persona. Oltre al danno la beffa: tutti gli altri Paesi dell’Europa centrale, partner dell’Ungheria nel Gruppo di Visegrad, saranno fra gli ospiti. Si tratta di un chiaro avvertimento politico da parte dell’amministrazione Biden nei confronti di un governo europeo giudicato troppo vicino alla Cina, oltre che conservatore in modo “inaccettabile”. Ma il Summit delle Democrazie è la sede giusta per lanciare simili messaggi trasversali?

La lista degli invitati, poi, non tiene in alcun conto la condizione della libertà di religione nei Paesi in questione. Se avessero almeno consultato la lista dei maggiori persecutori stilata ogni anno da Open Doors (associazione protestante) o quella di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs, cattolica) gli organizzatori del Summit si sarebbero accorti che alcuni dei principali ospiti sono anche tra i peggiori repressori della libertà di religione, diritto garantito dal Primo Emendamento della Costituzione americana e considerato, nella tradizione liberale statunitense, come la prima e più importante delle libertà. Secondo Open Doors, il Pakistan è il quinto al mondo per gravità della persecuzione (prima ci sono Corea del Nord, Afghanistan, Somalia e Libia). Al nono e al decimo posto ci sono la Nigeria e l’India, entrambe invitate senza problemi nel forum in cui si parlerà anche di “promozione del rispetto dei diritti umani”. Subito dopo, segue anche l’Iraq. Conclusioni analoghe si possono trarre consultando la mappa delle persecuzioni di Acs. Scopriamo che alcuni degli invitati sono in zona “rossa”, cioè dove la persecuzione dei cristiani è più intensa e attualmente in peggioramento: India, Pakistan, Congo, Malesia, Indonesia, Niger e Nigeria. È un grave atto di miopia non tenere conto del fattore di libertà di religione, in un momento in cui le repressioni sono soprattutto ai danni delle minoranze religiose.

Verrebbe da pensare (e pensar male) che l’amministrazione Biden abbia compilato la lista degli inviti con un criterio troppo personale. Chi è ostile ai Democratici attualmente al governo, è stato escluso, come nel caso di Erdogan e di Orban. Chi invece è politicamente affine o risulta utile agli interessi dell’attuale governo federale, è stato invitato nonostante le sue scarse o nulle credenziali democratiche. Qualche alleato tradizionale e irrinunciabile degli Stati Uniti, come il Brasile di Bolsonaro, è stato ammesso nonostante il suo leader sia agli antipodi di Biden. Ma si tratta di pochissime eccezioni.

In questo modo il Summit parte zoppo per mancanza di credibilità. Ed è un vero peccato, perché la questione della difesa delle democrazie dagli autoritarismi è di stretta attualità, mai così importante dalla fine della Guerra Fredda. Soprattutto rischia di essere sprecato il vero atto di coraggio annunciato sin dall’inizio: l’invito di Taiwan (chiamata col suo nome “Taiwan”) e non della Repubblica Popolare Cinese, un grande segnale di appoggio ad una democrazia assediata da Pechino. Ma, appunto, in un contesto così grave Biden non doveva permettersi simili leggerezze.