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PACIFISMO

Quando c'è l'odio non servono armi. Basta un sasso

Giusto tuonare contro i bambini-soldato e il mercato delle armi, ma ben sapendo che non sono le armi le responsabili delle guerre, ma l'odio. Per quello basta un coltello o un sasso. O un machete. Come dimostra il caso Ruanda e come dimostra la storia del Giappone. 

Attualità 15_02_2022

Il papa tuona, giustamente, contro i bambini-soldato. Però se la prende, al solito, con chi vende armi, anziché con chi, le anzidette, ai bambini le mette in mano. Il venditore di armi n. 1 al mondo sono gli Usa. Seguono in classifica, in ordine sparso, Francia, Gran Bretagna, Israele, Cina eccetera. La concorrenza è perfetta: se uno smettesse, gli acquirenti si rivolgerebbero ad altri. Ammesso che ci sia un Paese disposto a dar retta al papa. Ricordate la ritorsione degli Emirati contro l’Italia di Di Maio che aveva bloccato le forniture di bombe d’aereo? Ma poi, sono davvero «le armi» le responsabili? Il genocidio in Rwanda negli anni Novanta fu eseguito a colpi di machete, asce, coltelli, bastoni. Un milione di morti. Neanche una bomba atomica.

Nel cosiddetto medioevo giapponese, che in verità finì solo nella seconda metà dell’Ottocento, gli shōgun avevano così paura delle rivolte contadine (per fame) che in un’occasione arrivarono a proibire l’uso dei coltelli nei villaggi. Al centro della piazza ce ne stava solo uno, legato a un palo, e chi aveva bisogno di tagliare qualcosa doveva andare fin lì. Si portava dietro quel che doveva tagliare, operava e se ne andava lasciando il coltello a pendere dal palo. Sotto lo sguardo di due samurai armati, loro sì, delle famose due spade, messi a guardia dell’unico coltello. L’epoca dei samurai, che tanto ci entusiasma al cinema, era in realtà uno spietato sistema totalitario di guerre continue tra clan, per finanziare le quali i vari signorotti spremevano gli unici produttori: i contadini. Gli altri erano tutti «servitori» (samurai) o nobili o impiegati. Insomma, un regime di tipo sovietico in cui una pletora insopportabile di funzionari gravava sui soli contadini, i quali dovevano pagare in riso. E non avevano nessun diritto.

Qualche annata storta e puntuale arrivavano le ribellioni. Sempre soffocate nel sangue, mogli e figli compresi, da samurai che, perché restassero fedeli, andavano pure ben pagati. Fedeltà, già, fino al suicidio. Ma anche questo è cinema. La realtà giapponese era fatta di tradimenti, voltafaccia, pugnalate alla schiena al minor offerente. La famosa battaglia di Sekigahara del 1600, con la quale il clan Tokugawa unificò il Giappone (nel senso che, per i due secoli seguenti, all’anarchia baronale si sostituì la tirannia shōgunale), fu vinta perché uno degli alleati cambiò schieramento proprio a metà degli scontri.

Il famoso editto del «coltello unico» per i contadini? Generò tutte quelle strane armi che, sempre al cinema, ci esaltano e che in qualche caso l’Occidente ha adottato. Come il manganello a «L», che all’inizio era lo strumento con cui i contadini giapponesi battevano il riso. Idem per il nunchaku (i due mezzi bastoni uniti da una catena), le stelle da lancio e quant’altro. Anche qui, come in Ruanda, non ci fu bisogno di katane affilate come rasoi, costosissime e opera di maestri spadai.

Quando c’è l’odio, basta un sasso, i denti, le mani nude. E, aggiungiamo, se le katane fossero state accessibili ai contadini, la storia del Giappone sarebbe stata diversa. L’odio è meno forte dell’amore? Oh, sì, ma nel Regno dei Cieli. I missionari cattolici provarono, e riuscirono, a far cambiare testa ai giapponesi. Generando solo decine di migliaia di martiri. E una cristianità locale che minoranza era ai tempi di san Francesco Saverio e minoranza è rimasta. Gli shōgun giapponesi temevano, a ragione, un’invasione spagnola dalle vicine Filippine. L’invasione non ci fu, ma non a caso le Filippine restano, a tutt’oggi, l’unico Paese interamente cattolico di tutta l’Asia.