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Sergio Bresciani nel racconto della sorella Liliana

Ne Il cucciolo della Leonessa Liliana Alba Bresciani racconta la santità eroica del fratello Sergio, il più giovane soldato del reggimento artiglieria Terzo Celere, caduto il 4 settembre 1942 a diciotto anni in Africa Settentrionale durante le battaglie di El Alamein.

 

Cultura 19_08_2025

«La figura di Sergio è troppo bella e grande perché il suo eroismo possa andare nascosto e non premiato». Con queste parole il suo tenente superiore Zirano descrive Sergio Bresciani, il più giovane soldato del reggimento artiglieria Terzo Celere, caduto il 4 settembre 1942 a diciotto anni durante le battaglie di El Alamein, pluridecorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare italiana e con Croce di Ferro tedesca di prima e seconda classe. Nel volume Il cucciolo della Leonessa (Ares 2024, pp. 160) scritto dalla sorella Liliana Alba affiorano memorie, lettere, testimonianze dirette, ricordi di un giovane di grande nobiltà d’animo e purezza di cuore, insieme ai documenti della sua breve vita di soldato e ad alcune lettere dei suoi ufficiali.

Sergio nasce a Salò il 2 luglio 1924. È un bambino vivace che si diverte a fare scherzi cogli amici: «Lo scherzo che più divertiva Sergio e i suoi compagni e che maggiormente mi irritava, consisteva nel sostituire il tabacco della mia pipa con segatura intrisa d’inchiostro e l’inchiostro del calamaio della cattedra con un bel mucchietto di mosche». Poi però corre subito a chiedere scusa al malcapitato.

Nel 1939, in nome di valori quali Dio, patria e famiglia «che accoglie senza secondi fini, senza inquinamenti ideologici», si prepara per arruolarsi. D’altra parte l’amore per la Patria è per Sergio il prolungamento dell’amore familiare, per i suoi cari e il prossimo. Anche «a scuola e al catechismo avrà imparato che la via indicata da Dio è quella del dovere compiuto con amore e per amore, dell’altruismo, della dedizione, del sacrificio fino a dare la vita».

«Perdonami se non ti ho messo al corrente della mia fuga; temevo che pure tu condividessi l’idea; partire in due sarebbe stato impossibile. Io cercherò di farmi onore qui, tu fa’ il tuo dovere a casa: ricordati che ora sei l’unico aiuto e sostegno della famiglia che tanto amiamo», scrive al fratello Italo nel luglio 1939 prima di partire per l’Africa. Ma a Milano i carabinieri lo individuano e riconducono a casa.  La seconda volta riesce a sfuggire alla sorveglianza e a imbarcarsi, come racconta un reduce da El Alamein: «A portare le truppe in Africa Settentrionale erano grandi piroscafi. Si formava un convoglio scortato da navi da guerra. Ricordo che quando fui destinato sul fronte libico, quattro transatlantici partirono insieme da Napoli. Sergio si infilo in una di queste grandi navi. Era possibile? C’era una certa confusione sui moli. L’imbarco avveniva all’imbrunire. Arrivavano camion pieni di soldati con le armi e i bagagli. Le bettoline, dal mare, rifornivano di munizioni e di viveri. Un clandestino, svelto, determinato come Sergio, poteva approfittarne. E ne approfittò». Il Maggiore scrive al padre, lodandone carisma, temperamento e comportamento sul campo: di lì a poco Sergio si arruola regolarmente come volontario.

Così, a soli diciassette anni, ottiene le stellette di artigliere. Le lettere da El Alamein ai suoi cari sono piene di «frasi d’incoraggiamento, di speranza; mai si lascia sfuggire un lamento per il vitto cattivo, per il caldo soffocante (43° all’ombra), o per altro disagio, mai una parola di nostalgia o di avvilimento che potrebbe accrescere il dolore dei suoi cari già tanto preoccupati. A volte, anzi, riesce a farli sorridere». Pur soffrendo diverse volte per una grave otite, intima al papà di non dire nulla alla madre perché non si preoccupi. In una lettera al padre manifesta una fede umile e sincera: «Finora posso ringraziare Iddio se sono sempre in ottima salute e morale sempre più che alto; io non posso immaginare quanto il mio fisico sia forte, a una maniera tale da poter superare tutti i disagi che esistono in Africa; ne ho visti tanti che sono stati rimpatriati per malattie ed erano uomini grandi e grossi tre volte me, eppure io non ho mai sentito nessun malessere; questa è la più bella cosa che possiamo avere in questa terra». E ancora: «Questa mattina, facendo la comunione, ho pregato il Signore perché mantenga tutti i miei cari in buona salute e spero che il Signore esaudirà le mie preghiere dette con tutta la mia devozione».

Tuttavia Sergio non nasconde ai suoi cari le enormi sofferenze dovute anche al patire fame, sete e caldo asfissiante. Di qui al padre scrive: «Qui non è un vero inferno come tu dici ma è forse peggio. Finora posso ringraziare Iddio perché al pericolo che ho passato in questi giorni, se non ci fosse stata la sua mano, sarei nel numero dei caduti per la Patria. Spero che tutto finisca presto; ritornerò sano e salvo». Nonostante la giovane età, è profondamente consapevole che «“combattere per la Patria è sacro dovere di ogni cittadino”. E Sergio lo compie con tutto lo slancio e tutta la generosità di cui è capace, fino alla fine».

Il 2 settembre un colpo d’artiglieria lo colpisce al ventre. Il giorno seguente l’automezzo su cui viaggia entra in un campo minato inglese: la gamba destra gli salta via ed è prontamente amputata. «Di’ al signor tenente che mi scusi se ho commesso qualche mancanza», afferma tra le sue ultime parole. «È morto come muoiono i veri uomini. Se non l’avessimo saputo, non ci saremmo accorti che era un ragazzo», testimonia Zirano.

Alla luce di tali considerazioni è condivisibile il giudizio conclusivo della sorella Liliana: «Sono convinta che il 4 settembre 1942 Sergio poté scoprire che la guerra che davvero aveva combattuto e vinto non fu quella del deserto, contro gli inglesi, così tristemente conclusa; ma fu quella buona battaglia attraverso la quale è passato conservando un cuore buono, capace di amare, di sopportare, di rendersi utile, di credere nella giustizia, di fidarsi e di affidarsi a Lui. Con la semplicità dei grandi, con l’umiltà dei puri, con la tenerezza dei forti».