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ISTANZE MACABRE

La tesi di due professori: «L'eutanasia è un guadagno»

Legalizzare l’eutanasia? Un vero affare per i conti pubblici e non solo, perché così si assecondano le istanze di chi vuole andarsene, si risparmiano quattrini e si favorisce una maggiore disponibilità di organi per i trapianti. Questa l'opinione che ormai si diffonde nelle accademie.

Vita e bioetica 15_03_2020

Legalizzare l’eutanasia? Un vero affare per i conti pubblici e non solo, perché così si assecondano le istanze di chi vuole andarsene, si risparmiano quattrini e si favorisce una maggiore disponibilità di organi per i trapianti. Esposta in modo più vellutato, ovvio, ma è questa la tesi di fondo che due studiosi, David Shaw dell’Università di Basilea, in Svizzera, e Alec Morton, dell’Università di Strathclyde, nel Regno Unito, hanno messo nero su bianco nel loro recente articolo apparso su Clinical Ethics, trimestrale accademico centrato sui temi di etica medica. Che le cose stiano in questi termini è provato fin dal titolo dell’intervento di Shaw e Morton, eloquentemente chiamato «Counting the cost of denying assisted dying».

In estrema sintesi, i due studiosi articolano il loro ragionamento su tre versanti. Il primo è quello secondo cui la morte on demand è cosa buona e giusta perché consente ai pazienti consenzienti favorevoli di evitare inutili sofferenze; il secondo si basa sulla considerazione secondo cui le risorse economiche rese disponibili dalla «dolce morte» possono essere utilizzate per allungare la vita a chi desidera invece vivere, migliorando l’offerta del sistema sanitario; il terzo aspetto messo in evidenza da Shaw e Morton, invece, riguarda la già ricordata disponibilità di organi per i trapianti, che determinerebbe notevoli vantaggi per i beneficiari degli stessi.

«Il nostro documento», concludono i due accademici, «mostra quindi come in generale opporsi alla morte assistita determini grandi costi sia per i pazienti che desiderano morire, sia per quelli che invece desiderano vivere». Ora, che cosa c’è che non va in un simile argomentare? Tantissimi aspetti, evidentemente. Tanto per cominciare - memori dell’andreottiano «a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina» - non possiamo non notare come tale articolo sia stato pubblicato il 10 marzo, quindi in piena emergenza planetaria da coronavirus.

Ma al di là di questo, il ragionamento di Shaw e Morton è da respingere in toto non tanto e non solo per le conclusioni cui perviene, né per i suoi comunque discutibilissimi argomenti, ma proprio per il suo impianto generale. Ci si riferisce al fatto che, nel momento in cui si parla di assistenza ai malati - gravi o meno che siano -, e si inizia a parlare di «costi», significa che si è già posizionato il proprio pensiero in una cultura di morte; si è cioè già sacrificata l’antropologia sull’altare dell’economia, ribaltando l’ordine prioritario delle cose. Come se i conti pubblici venissero prima del diritto alla cura, e non viceversa. Il che è chiaramente inaccettabile.

Il dato allarmante è però che quello apparso su Clinical Ethics non rappresenta una novità assoluta, essendo in questi anni già stati pubblicati interventi simili, se non perfino più allarmanti. Pensiamo ad uno studio uscito nel 2017 sul Canadian Medical Association Journal con il quale gli autori stimavano in 138 milioni di dollari annui il risparmio cui, a regime, potrebbe portare l’eutanasia. Sempre in Canada, nel gennaio scorso, un intervento apparso su Ottawa Citizen affermava chiaramente che «gli abitanti dell’Ontario che optano per l’assistenza medica al suicidio (MAiD) stanno salvando o migliorando sempre di più la vita degli altri, includendo anche la donazione di organi e tessuti nelle loro ultime volontà».

David Shaw e Alec Morton, con il loro articolo, non hanno insomma fatto che conferire una veste accademica ad un degrado antropologico già in corso, promuovendo una «cultura dello scarto» che, allo sguardo umano di accoglienza nei confronti della vita fragile, preferisce il mero calcolo. Ne consegue come, in questo modo, ogni malato sia ridotto a un numero e ogni posto letto libero a un macabro risparmio economico e a una altrettanto inquietante disponibilità di «pezzi di ricambio». Uno scenario da incubo che evidentemente non i cattolici, ma chiunque abbia a cuore il diritto naturale e il più elementare senso di umanità è chiamato, senza tentennamenti, a contrastare.