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Ora di dottrina / 163 – La trascrizione

La Passione del Signore (IV parte) – Il testo del video

Soddisfazione, espiazione, redenzione, sacrificio: tutti concetti oggi pressoché spariti dalla predicazione ordinaria, che san Tommaso affronta trattando di passione di Cristo, salvezza e merito. Misericordia e carità non eliminano la giustizia, ma la presuppongono.

Catechismo 18_05_2025

Proseguiamo le nostre catechesi sulla passione del Signore. Oggi ci soffermiamo sulla quæstio 48 della III parte della Summa. È una questione veramente densa e particolarmente importante perché si concentra sulla modalità con cui la passione di Cristo ha portato i suoi effetti salvifici (che vedremo la prossima volta).

È una lezione importante perché spiegheremo concetti che purtroppo sembrano svaniti nel contesto della predicazione ordinaria e addirittura osteggiati in alcuni contesti teologici. Parleremo di soddisfazione, espiazione, redenzione, sacrificio: tutti temi importantissimi che rivedremo a suo tempo quando parleremo del sacrificio eucaristico. Quando si espone la dottrina necessariamente bisogna esporre un tratto alla volta, ma la verità di cui parliamo è una verità unica e quindi bisogna imparare a cogliere i legami delle diverse verità tra di loro, gli effetti che ciascuna verità ha sull’altra, le loro relazioni, per cercare di avere il più possibile una visione d’insieme e non perdersi nei singoli dettagli; non perché i dettagli non siano importanti ma perché essi, una volta conosciuti, vanno ricondotti all’insieme, all’unità.

Nell’art. 1 della quæstio 48, san Tommaso si chiede se la passione di Cristo abbia causato la nostra salvezza sotto forma di merito, cioè se abbia meritato la salvezza. Se ricordate, nella lezione 137, ci eravamo soffermati su un punto particolare, ossia sulla grazia di Cristo capo (quæstio 8 della III parte della Summa). San Tommaso ritorna su questo tema, perché diventa fondamentale per capire in che senso Cristo abbia meritato per noi; che abbia meritato per Sé è più facile da comprendere, perché il merito è personale: un mio atto merita qualche cosa di buono o di cattivo. San Tommaso aveva riflettuto sull’unione intima tra Cristo e le sue membra, così da dire che la grazia di Cristo, in quanto capo delle membra, in qualche modo fluisce sulle membra. Ora, qui ritorna questo concetto importantissimo.

Leggiamo la parte principale, il corpo di questo art. 1: «La grazia fu data a Cristo non solo in quanto persona singolare ma anche in quanto capo della Chiesa, cioè in modo che da lui ridondasse sulle sue membra. Perciò le azioni compiute da Cristo stanno tanto a lui quanto alle sue membra, come le azioni di un altro uomo costituito in grazia stanno a lui personalmente» (III, q. 48, a. 1). Questa singolare e unica unione tra Cristo e le sue membra fa sì che «le azioni compiute da Cristo stanno tanto a lui quanto alle sue membra»; ed è per questo che Tommaso conclude dicendo che «Cristo con la sua passione meritò la salvezza non soltanto per sé, ma anche per tutte le sue membra» (ibidem).

Cioè, il merito che il Signore acquisisce con la propria passione non è un merito che rimane solo nella propria persona, ma ridonda su tutte le membra del suo corpo mistico, perché Egli è costituito capo del corpo. Dobbiamo aiutarci a comprendere richiamando l’immagine del corpo. Il bene che io posso fare al mio capo ridonda sul corpo in generale, perché il capo, potremmo dire, è un centro di unificazione di tutte le membra del corpo. Analogamente, Cristo in rapporto a noi che siamo le sue membra. Questo è un testo importantissimo: capite l’importanza che ha nella vita di un uomo il fatto di rimanere, dimorare in Cristo. Queste parole – rimanere, dimorare, restare – le troviamo ad abundantiam nel Vangelo di san Giovanni: «Rimanete in me»; «Chi rimane in me…», eccetera.

È solo nella misura in cui si rimane in Cristo, cioè si rimane in quella unione che si ha con l’adesione a Cristo nella fede e nella rigenerazione battesimale, che si può beneficiare di ciò che è del capo; e dunque in questo caso i meriti di Cristo diventano meriti che vengono trasferiti nelle membra. In questo senso è corretto affermare che la passione di Cristo ha provocato, ha ottenuto la nostra salvezza sotto forma di merito, di vero e proprio merito, da intendere come il merito del capo che si trasferisce alle membra. Quindi, rimanendo uniti al capo si partecipa del suo merito, il merito di Cristo.

Nell’art. 2, san Tommaso si domanda se la passione di Cristo abbia causato la salvezza sotto forma di soddisfazione. Dunque, art. 1: sotto forma di merito, art. 2: sotto forma di soddisfazione.

Cosa vuol dire soddisfazione, soddisfare? Il termine viene da satis-facere, cioè in sostanza: “restituire a sufficienza a chi è stato offeso da qualcosa”. Qui ritorna un tema importante su cui più volte ho insistito, perché è una delle cose che non sentiamo quasi più nell’annuncio cristiano: noi uomini abbiamo un debito da soddisfare. Soddisfare vuol dire in sostanza restaurare un ordine di giustizia che è stato violato. Ora, la soddisfazione che Cristo offre con la sua passione è una soddisfazione più che sufficiente, sovrabbondante. Leggiamo dalla Summa: «Cristo, accettando la passione per carità e per obbedienza [su questo vi rimando alla catechesi di domenica scorsa], offrì a Dio un bene superiore a quello richiesto per soddisfare tutte le offese del genere umano. Primo, per la grandezza della carità con la quale volle soffrire [dunque, la misura della soddisfazione è data dalla misura della carità; e la misura della carità in Cristo è infinita, sovrabbondante]. Secondo, per la nobiltà della sua vita, che era la vita dell’uomo-Dio e che egli offriva come soddisfazione». a sua persona, la sua vita era la vita non semplicemente di un grande uomo bensì dell’uomo-Dio. E dunque questa realtà teandrica, questa comunione della divinità con l’umanità ha fatto sì che ciò che è stato offerto in soddisfazione ha la misura di Dio, quindi una misura infinita, più che sovrabbondante. «Terzo, per l’universalità delle sue sofferenze e la grandezza dei dolori accettati [anche di questo abbiamo parlato, spiegando in che senso il Signore ha sofferto tutti i dolori]. Per queste tre ragioni la soddisfazione offerta dal Signore è sovrabbondante» (III, q. 48, a. 2).

Nella risposta alla prima obiezione, san Tommaso di nuovo reitera la verità dell’unione tra Cristo e le sue membra: «Il capo e le membra formano come un’unica persona mistica. Perciò la soddisfazione di Cristo appartiene a tutti i suoi fedeli che ne sono le membra» (III, q. 48, a. 2, ad 1). Qual era l’obiezione? L’obiezione era: la soddisfazione di un peccato, quindi la restituzione all’offeso in modo almeno proporzionato, deve essere fatta dalla persona che ha commesso la colpa. Ora, qui abbiamo che Cristo, che non ha commesso alcuna colpa, offre la soddisfazione al posto nostro che non siamo in grado di offrire una soddisfazione sufficiente. Ma, di nuovo, quello che rende possibile che la soddisfazione di Cristo si trasferisca a noi che realmente siamo i debitori è l’unione tra il capo e le membra. Dunque, così come l’unione tra il capo e le membra trasferisce alle membra i meriti del capo, così la stessa unione fa sì che sia trasferita alle membra la soddisfazione. La soddisfazione infinita, sovrabbondante offerta da Cristo, viene trasferita a noi. Quindi, possiamo dire che noi facciamo nostra la sua soddisfazione, ma non per un semplice atto della nostra volontà ma in virtù di questa unione tra Cristo e le sue membra. Dunque, vediamo la centralità di questa unione mistica, dove “mistica” non vuol dire fittizia, teorica, ma indica una realtà che ha una sua natura particolare: non un’unione fisica, ma non meno reale.

Voglio richiamare un testo della Caritas in veritate (n. 6), enciclica di papa Benedetto XVI: «La giustizia è la prima via della carità o, com’ebbe a dire Paolo VI, “la misura minima” di essa». Ho voluto richiamare questo testo perché, nel contesto in cui viviamo, la giustizia è forse la realtà più dimenticata. Ci siamo riempiti così tanto la testa di “misericordia” e “carità” da non renderci conto che la misericordia e la carità non tolgono la giustizia, non ledono, non eliminano la giustizia, ma la presuppongono. Appunto, la giustizia è la prima via della carità, è la “misura minima” della carità: “minima” è un’espressione, a mio avviso, non troppo felice, ma va intesa nel senso che la giustizia è il sostrato indispensabile della carità, come a dire: non ci può essere carità, non ci può essere misericordia senza giustizia. E questo è l’ordine che Dio stesso ha osservato: non ha rimosso l’ingiustizia rimuovendo la giustizia, facendo a meno della giustizia, ma ha ripristinato la giustizia in una sovrabbondanza di misericordia. Questo è il senso della soddisfazione. La soddisfazione dice un ordine di giustizia che doveva essere riparato e che è stato riparato – e qui entra la carità infinita di Dio – da Dio stesso nella persona del Figlio, che ha trasferito i suoi meriti, la sua soddisfazione nelle sue membra unendole a Sé.

Questo, come vedete, è un tema centrale, importante: se noi eliminiamo la giustizia, non comprendiamo più la soddisfazione e non comprendiamo più il concetto gemello della soddisfazione, che è l’espiazione.

Cos’è l’espiazione? Questa è un’altra parola bandita dal vocabolario teologico; ma l’espiazione è un concetto importante che è legato alla soddisfazione: una colpa richiede un’espiazione, cioè un ristabilimento di un ordine di giustizia. Infatti la grande tradizione della Chiesa parla di espiazione vicaria, che si lega a quello che abbiamo detto sulla soddisfazione. Cioè, noi uomini non eravamo in grado di espiare perché l’ordine di giustizia che abbiamo leso non era recuperabile da noi stessi. Detto in altro modo, abbiamo combinato un danno che non eravamo in grado di riparare, perché l’offesa dell’umanità è un’offesa alla Maestà divina. Dunque, questo ordine richiedeva, per essere ristabilito, riparato, un espiatore che fosse dalla parte dell’uomo, perché l’uomo aveva peccato, ma fosse anche dalla parte di Dio, per il merito infinito che era in grado di ottenere con la sua offerta e la sua espiazione. E appunto l’uomo-Dio è Gesù Cristo.

Perché parliamo di espiazione vicaria? Perché Gesù, espiando pur non avendo peccato, ha portato su di Sé le nostre colpe e ha soddisfatto per quanti sono uniti a Lui, alla sua persona. Dunque, da questa espiazione vicaria abbiamo la cosiddetta propiziazione. Altro termine che non si può più dire, ma che è una realtà.

Cosa vuol dire propiziazione? Vuol dire “rendere Dio propizio”. È chiaro che questo termine non va inteso in modo banale, come se il Signore si fosse offeso e uno, con qualche parola di convincimento, lo abbia convinto a fare la pace… Il senso è un altro. Il senso è che questa espiazione ha nuovamente e realmente reso giusto l’uomo e quindi, riparando questo ordine, Dio si rende propizio, nel senso che Dio può ri-guardare con benevolenza l’uomo, reso giusto. Agli occhi di Dio tutto ciò che è ingiusto, empio, malvagio, non può avere uno sguardo propizio, questo è importante capirlo. Finché l’uomo non distanzia da sé l’empietà, l’ingiustizia, e non accetta di ritornare giusto per i meriti di Cristo, che Cristo applica a lui in quanto membro del suo corpo, lo sguardo del Signore non può essere propizio. Quando invece questo torna ad essere propizio, non è che avviene perché è cambiato il Signore, ma perché siamo cambiati noi. È importante rimettere al centro della riflessione cristiana questo concetto, altrimenti non capiamo l’esigenza di rimanere in Cristo e l’esigenza della vita sacramentale.

Nell’art. 3, abbiamo la terza forma con cui la passione del Signore ha ottenuto i suoi effetti. Abbiamo visto il merito; poi la soddisfazione (e con essa abbiamo parlato dell’espiazione e della propiziazione); la terza forma è il sacrificio.

Che cos’è il sacrificio? San Tommaso ci dice che «il sacrificio è propriamente un’opera compiuta per rendere a Dio l’onore che a lui solo è dovuto al fine di placarlo» (III, q. 48, a. 3, co.). Questo “placare” va inteso nel senso che abbiamo visto prima, cioè il senso della propiziazione e della soddisfazione: sono tutti concetti legati tra loro, con delle sfumature diverse, ma intimamente legate.

Il sacrificio quindi è un’offerta che viene fatta a Dio e questa offerta viene consumata, “distrutta”. Per capirci: è qualche cosa che viene dato esclusivamente a Dio e non ritorna più indietro all’uomo; da qui il senso della sua consumazione. Pensiamo all’olocausto che veniva offerto, all’uccisione della vittima animale: indica qualcosa che è trasferito in Dio, qualcosa che l’uomo dà a Dio e su cui l’uomo in qualche modo trasferisce sé stesso per rendere a Dio l’onore che gli è dovuto. È un po’ come dire: “Tu sei tutto, io da me sono nulla, da Te ricevo tutto”.

Ora, questo aspetto esteriore del sacrificio richiama un aspetto interiore, cioè la carità di chi offre. Questo è importante. Dio non ha bisogno delle cose che gli offriamo, ma, in ciò che offriamo, Egli vede la carità con cui si fa l’offerta. Quindi l’aspetto esteriore, importante, richiede un aspetto interiore, ancora più importante. I due aspetti sono legati, non è un aut-aut. Ricordiamo la nostra natura che è fatta di materia e di spirito, di interno ed esterno, di materia e di intenzione, di volontà.

Un testo importantissimo dell’art. 3 richiama un passo del De Trinitate di sant’Agostino, nel quale vengono messi in luce i quattro aspetti che caratterizzano il sacrificio. «In ogni sacrificio si devono considerare quattro cose: a chi viene offerto, chi lo offre, che cosa viene offerto, per chi viene offerto. Così l’unico e vero mediatore Gesù Cristo volle riconciliarci con Dio mediante il sacrificio di pace, restando una cosa sola con colui al quale l’offriva [primo aspetto: a chi?], unificando a sé gli uomini per i quali l’offriva [per chi], ed essendo lui stesso l’unico offerente [chi offre] e l’unica vittima [ciò che viene offerto]».

I quattro aspetti – a chi è offerto, da chi, che cosa, per chi – sono uniti nella persona del Signore. Perché il Signore è colui che offre, ma è anche colui che viene offerto, è la stessa vittima sacrificale. È anche colui al quale viene offerto, essendo Dio, ed è anche colui per il quale viene offerto, essendo uomo capo degli uomini, unito a noi come il capo alle membra. Vedete in che senso possiamo dire che la passione del Signore ottiene i suoi effetti, per mezzo del sacrificio di Cristo, in modo pieno. Nessuno e nessun altro sacrificio è in grado di condensare questi quattro aspetti, perché normalmente chi offre non è ciò che è offerto, e chi offre non è colui al quale viene offerto. C’è sempre una distinzione tra questi quattro aspetti che in Cristo invece coincidono nella sua persona. Egli è dunque il sacrificio per eccellenza, adempiendo in Sé la totalità degli elementi che costituiscono un sacrifico; ed essendo un sacrificio, è un’opera che compie ciò che è dovuto e rende propizio Colui al quale viene offerto. Questo si ricollega a quanto abbiamo detto prima.

Quarto aspetto. Nell’art. 4, ci si chiede se Cristo abbia realizzato la nostra salvezza sotto forma di redenzione. Che cos’è la redenzione? La redenzione è l’atto di riscattare ed è il prezzo stesso del riscatto. Quando parliamo di redenzione, vuol dire che c’è qualcuno che riscatta e qualcosa che si riscatta. E si riscatta da che cosa? La redenzione è il riscattare da una schiavitù. E san Tommaso in questo articolo dice chiaramente che il peccato ha reso l’uomo schiavo dello stesso peccato, come dice il Signore nel Vangelo (cf. Gv 8, 34), e anche schiavo del demonio. L’essere schiavi del peccato, cioè l’essersi distaccati, distolti con la propria volontà da Dio, ci rende in qualche modo preda di qualcun altro e questo qualcun altro è il demonio. Dunque, è una duplice schiavitù: verso il peccato e verso il demonio.

Questa schiavitù viene causata sempre in rapporto all’offesa che abbiamo fatto a Dio, alla giustizia che abbiamo leso nei riguardi di Dio. Dunque, il testo è estremamente importante, perché ci fa capire che il Signore è Redentore pienamente perché è colui che offre ma è anche il prezzo stesso della redenzione, cioè il suo sangue è il prezzo stesso della redenzione. Infatti, nell’art. 5, che si collega profondamente al quarto, san Tommaso scrive che «a Cristo in quanto uomo appartengono tutte e due le suddette cose in maniera immediata» (III, q. 48, a. 5). Quali erano le «suddette cose»? L’atto del pagamento e il prezzo da pagare, due aspetti della redenzione. «Invece, come a causa prima e remota, esse vanno attribuite a tutta la Trinità» (ibidem). Che cosa ci sta dicendo qui san Tommaso? Ci sta dicendo che Cristo è Redentore perché è sia colui che paga il prezzo del riscatto sia il prezzo del riscatto stesso, che è il suo sangue. Dunque, Cristo, nella sua umanità – diciamo “nella sua umanità” perché è con la sua carne immolata, con il suo sangue versato che paga il prezzo del riscatto – è vero Redentore; mentre in quanto Dio, insieme alle altre due persone della Trinità, è la causa prima della redenzione. C’è una causa prima e c’è chi realizza questa causa prima, che è propriamente il Redentore, cioè nostro Signore.

Nell’art. 6 troviamo una distinzione importantissima, perché fonda il senso della vita sacramentale della Chiesa: si tratta della distinzione tra causa principale e causa strumentale. San Tommaso si chiede se la passione di Cristo sia stata la causa efficiente della nostra salvezza e, per spiegare, ricorre a questa distinzione tra causa principale e causa strumentale. Cerchiamo di capire il primo aspetto. Che cosa vuol dire causa principale? “Principale” viene da primus e capio, cioè “prendere il primo posto”, possiamo dire; in pratica, è ciò da cui scaturisce qualche cosa. È evidente che come causa principale della nostra salvezza noi abbiamo Dio, perché è da Dio, dalla Trinità, che scaturisce la nostra salvezza.

E tuttavia questa salvezza che scaturisce da Dio, dalla vita trinitaria delle tre persone divine, passa per una causa strumentale. Una causa che fa da mezzo, da strumento, eppure necessaria. Qual è questa causa strumentale? San Tommaso ci dice che «essendo l’umanità di Cristo strumento della divinità [lo abbiamo visto quando abbiamo parlato della realtà teandrica del Signore, cioè la sua umanità era strumento della sua divinità, essendo la sua umanità congiunta alla persona del Verbo, alla seconda persona della Trinità], ne consegue che tutte le azioni e le sofferenze di Cristo producevano strumentalmente, in virtù della divinità, la salvezza dell’uomo» (III, q. 48, a. 6). Quindi, ciò che è causato in modo principale, come principio, nella vita intradivina passa allo strumento, all’umanità congiunta al Verbo incarnato e causa in questo modo la salvezza dell’uomo. Dunque, due cause: la causa principale e la causa strumentale. La causa strumentale è connessa alla causa principale in virtù dell’Incarnazione: e da qui l’umanità del Signore diviene causa strumentale.

Ora, qual è l’obiezione che viene fatta? L’obiezione è: come fa la passione del Signore, che è avvenuta in un luogo e in un tempo ben preciso, ad entrare in contatto con coloro che devono essere salvati? San Tommaso dice: «Pur essendo corporale, la passione di Cristo ha tuttavia una virtù di ordine spirituale per la sua unione con la divinità». (III, q. 48, a. 6, ad 2) Dunque, è corporale ed è spirituale, non è o l’una o l’altra, ma entrambe. Continua san Tommaso: «Essa [la passione di Cristo] rivela la sua efficacia mediante un contatto spirituale» (ibidem). Dio è al di fuori di ogni tempo e di ogni spazio; la passione del Signore, coinvolgendo la sua umanità, la sua corporeità, è collocata nel tempo e nello spazio, ma Colui che offre e soffre è la persona divina che è fuori dal tempo e dallo spazio o, meglio, che ingloba in Sé ogni tempo e ogni spazio. «E così essa rivela la sua efficacia mediante un contatto spirituale: cioè mediante la fede e i sacramenti della fede» (ibidem). Qui abbiamo il punto cruciale per capire il senso dei sacramenti della Chiesa, che avremo modo di vedere meglio più avanti. I sacramenti sono efficaci in virtù di questa unione della causa strumentale che è l’umanità di Cristo, che è unita alla divinità e che quindi è in grado di raggiungere ogni spazio e ogni tempo. Vedete la ricchezza infinita di questo articolo.

A mo’ di conclusione, san Tommaso, nella risposta alla terza obiezione all’art. 6, racchiude un po’ tutti gli aspetti che abbiamo visto in questa quæstio molto ricca e complessa: «La passione di Cristo in rapporto alla sua divinità agisce come causa efficiente [causa prima, principale]; in rapporto alla volontà dell’anima di Cristo, agisce come causa meritoria [lo abbiamo visto all’inizio]; in rapporto alla carne stessa di Cristo [cioè alla sua corporeità], agisce sotto forma di soddisfazione, in quanto grazie ad essa siamo liberati dal reato della pena; agisce invece sotto forma di redenzione in quanto con essa siamo liberati dalla schiavitù della colpa; e infine agisce sotto forma di sacrificio, in quanto per mezzo di essa siamo riconciliati con Dio» (III, q. 48, a. 6, ad 3). Vedete dunque come vengono riuniti, ricollegati tutti gli aspetti che abbiamo visto: la causa efficiente della nostra salvezza, nella sua divinità; la causa strumentale nella sua umanità e dunque meritoria quanto alla volontà, alla carità che ha animato Cristo nella sua offerta; in forma di soddisfazione, quanto alla sua carne offerta, al suo sangue offerto; sotto forma di redenzione, in quanto Cristo è sia colui che redime sia il riscatto stesso, il prezzo del riscatto con cui ci libera dalla schiavitù; e infine sotto forma di sacrificio, che ci riconcilia con Dio, ci rende nuovamente propizio il Signore.

La prossima volta vedremo quali sono gli effetti della passione del Signore.



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