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Ora di dottrina / 162 – La trascrizione

La Passione del Signore (III parte) – Il testo del video

Gesù si sottopose volontariamente alla sua Passione, ma ciò non toglie la colpa dei suoi carnefici. «Affrontò la morte per carità e per obbedienza» (S. Tommaso), riparando il peccato dei progenitori. Ignoranza e responsabilità: il senso delle parole di Gesù in croce.

Catechismo 11_05_2025

Proseguiamo la nostra serie di catechesi sulla passione del Signore: è la terza su questo argomento (vedi qui e qui). Una catechesi che si colloca all’interno del capitolo più ampio dei misteri della vita del Signore. Stiamo commentando da diverso tempo il Credo e siamo nella sezione che riguarda il Signore Gesù che si è incarnato... e patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì, fu sepolto, è risorto, eccetera. Dunque, stiamo affrontando tutto quanto riguarda i misteri della vita, passione, morte e glorificazione del Signore.

Oggi commentiamo la quæstio 47 della III parte della Summa che si occupa delle cause della passione di Cristo. Nei primi due articoli viene affrontata una questione fondamentale, cioè chi è stato causa della passione del Signore: coloro che in qualche modo gliel’hanno inflitta, dunque i capi del popolo giudaico, i Romani, Ponzio Pilato? Oppure la causa della passione del Signore è in qualche modo il Signore stesso?

San Tommaso dà una risposta molto ben bilanciata: «Si deve affermare che nello stesso tempo Cristo soffrì la morte per violenza e tuttavia morì volontariamente perché contro il suo corpo fu usata la violenza, la quale tuttavia non prevalse su di esso se non nella misura che egli volle» (III, q. 47, a. 1, ad 3).

Quando parliamo delle cause della passione, possiamo dire che in qualche modo abbiamo una conciliazione degli opposti; non dei contraddittori, ma degli opposti sì. In prima battuta, sembrerebbe che ci sia un’alternativa: o Cristo ha subito la passione per mano di altri che l’hanno causata oppure l’ha voluta Egli stesso. In realtà le due cose possono stare bene insieme. San Tommaso distingue tra un’azione diretta che è quella appunto dei suoi persecutori, carnefici e accusatori, che direttamente vogliono la morte del Signore o la compiono, la eseguono. Ma indirettamente, dice Tommaso, uno può essere causa indiretta di un fatto, cioè «non lo impedisce pur avendone la possibilità. (…) E in questo modo si può dire che Cristo stesso fu causa della sua passione e morte» (III, q. 47, a. 1). Il Signore poteva impedire la sua passione e la sua morte, ma non le impedì e adesso vedremo perché. Ma intanto teniamo insieme questi due aspetti, che non vuol dire fare confusione, perché affermare che la causa della morte del Signore è il Signore stesso e, inoltre, sono i suoi persecutori non vuol dire mettere i due aspetti sullo stesso piano, perché c’è una differenza chiara. Nel primo caso abbiamo un’azione indiretta o permissiva: Cristo non impedisce, pur potendolo, permette l’azione omicida nei suoi confronti; dall’altra parte abbiamo invece un’azione diretta e quindi responsabile, un’azione colpevole di chi ha cercato la morte del Signore a diversi livelli. Attenzione, perché il fatto che il Signore abbia permesso la sua passione non toglie la responsabilità di chi l’ha compiuta. E il fatto che costoro l’abbiano compiuta non toglie il merito di Colui che l’ha permessa. Adesso vediamo.

Nell’art. 2, san Tommaso mette in chiaro che la ragione per cui il Signore si offre all’azione dei suoi persecutori, senza impedirla, è fondamentalmente l’obbedienza. E la ragione di ciò sta primariamente in questo “contraltare”, in questa riparazione della caduta originaria. San Tommaso scrive: «Fu sommamente conveniente che Cristo patisse la morte per obbedienza. Primo, perché ciò si addiceva alla giustificazione dell’uomo, in modo che, come dice san Paolo, “come per la disobbedienza di uno solo tutti furono costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti furono costituiti giusti” (Rm 5, 19)» (III, q. 47, a. 2). La caduta originale è avvenuta per disobbedienza, per un atto di disobbedienza a Dio; la riparazione avviene per l’obbedienza del Figlio di Dio. Questo è il senso fondamentale che spiega perché il Signore si sia offerto.

Ma perché questa obbedienza? Perché, com’è scritto nel Vangelo di Giovanni (10, 18), che san Tommaso richiama, il Signore dice: «Ho il potere di offrire la mia vita e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio». Dunque, nel disegno trinitario, nel disegno del Padre c’è questa riparazione della colpa, e il Figlio accoglie il progetto paterno, obbedisce al progetto paterno: questa obbedienza sta appunto nel dare la vita e riprenderla di nuovo. Tra un po’ andremo più a fondo dell’anima di questa obbedienza, perché è chiaro che non è una mera obbedienza esterna, a denti stretti.

Però è importante innanzitutto richiamare questo parallelo: l’obbedienza del Figlio in fondo rispecchia un ordine di giustizia – una disobbedienza riparata dall’obbedienza – a cui noi spesso non diamo abbastanza importanza. Per noi il riparare un ordine ingiusto non è qualcosa di prioritario, anzi siamo così abituati a bypassare l’ordine di giustizia in nome della “misericordia” che non ci rendiamo più conto che la misericordia non è contraria alla giustizia, ma ripristina un ordine di giustizia con qualcosa in più.

San Tommaso sottolinea, sempre nell’art. 2, nella risposta alla prima obiezione, quanto estesa sia questa obbedienza nel compimento della Legge antica. San Tommaso mostra che, attraverso l’accettazione della sua passione e morte, il Signore adempie le grandi categorie di precetti dell’Antica Alleanza. La prima e la più importante sono i precetti della carità: sappiamo bene che il primo grande comandamento è «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze»; «Amerai il prossimo tuo come te stesso».

Questo è stato adempiuto perfettamente nella passione di Gesù. San Tommaso cita due testi: il primo è mutuato dal Vangelo di Giovanni (14, 31), dove il Signore dice «perché il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato. Alzatevi e andiamo via di qui». Indica l’inizio della sua passione, perché «il mondo sappia che io amo il Padre»: la passione è la manifestazione più alta in assoluto dell’amore verso il Padre, al punto tale che il Padre e la sua volontà vengono amate da Gesù più di Sé stesso e con tutto Sé stesso, perché Cristo nella passione dà tutto Sé stesso al Padre, prima di tutto.

E poi per amore del prossimo. E qui viene citato san Paolo (Gal 2, 20): «[Cristo] Mi ha amato e ha dato se stesso per me». Dunque, vedete che nella passione si è adempiuto con pienezza e sovrabbondanza il duplice precetto della Legge. Ricordiamoci sempre i due aspetti che devono essere tenuti insieme: l’amore del Padre, con tutti sé stessi, e l’amore del prossimo.

Ancora, vengono adempiuti i cosiddetti precetti cerimoniali. Quali erano le grandi cerimonie dell’Antica Legge? Erano i sacrifici e le oblazioni, cioè tutta quella parte della Legge che troviamo in particolare nel libro del Levitico, dove si normano con precisione i tipi di sacrifici che devono essere offerti e le modalità con cui devono essere offerti. Dunque, Cristo nel suo sacrificio adempie tutti i sacrifici cerimoniali, che erano chiaramente figura di Lui.

Terzo, i precetti giudiziali della Legge. San Tommaso ci dice che erano i precetti in riparazione delle offese e delle ingiurie ricevute. E in particolare, ci dice che così viene riparato un furto. Qual era il furto? Tommaso afferma che Cristo permette «la propria affissione all’albero della croce, per il frutto che l’uomo aveva rubato dall’albero, contro il comando di Dio» (III, q. 47, a. 2, ad 1). Cioè, il Signore Gesù, che non aveva rubato nulla, ripara il grande furto dei nostri progenitori. Quel furto indica una rapina ben diversa: quel furto, quel prendere da Dio per sé, escludendo Dio stesso, i grandi doni che Dio aveva dato alla natura umana. Doni che a un certo punto l’uomo vuole per sé, in particolare quel «non morirete affatto», «sarete come Dio»; l’uomo li vuole prendere rubandoli dalla mano di Dio anziché ricevendoli da Dio. Questo furto viene riparato dalla passione del Signore.

Dunque, vedete, qui abbiamo una visione molto profonda della passione del Signore. Ancora, san Tommaso, nella risposta alla seconda obiezione dell’art. 2, ci dice: «L’obbedienza, sebbene implichi necessità rispetto a ciò che è comandato, tuttavia implica volontarietà rispetto all’adempimento del  comando. E tale fu l’obbedienza di Cristo» (III, q. 47, a. 2, ad 2). L’obbedienza di Cristo fu un’obbedienza volontaria, libera, mossa da carità. Non fu un’obbedienza estorta, quindi semplicemente un adempimento materiale di qualcosa.

San Tommaso, nella risposta alla terza obiezione, sintetizza questo art. 2, molto bello, in questo modo: «Cristo affrontò la morte per carità e per obbedienza come per un identico motivo, poiché anche i precetti della carità egli li adempì solo per obbedienza; e fu obbediente a motivo del suo amore verso il Padre che gli dava tali precetti» (III, q. 47, a. 2, ad 3).

Qui c’è una sintesi meravigliosa tra carità e obbedienza, due aspetti che nella nostra mentalità, nella nostra concezione delle cose tendiamo a contrapporre; noi pensiamo che una cosa o la si fa per amore o per obbedienza, ma non è così. Il Signore ricostituisce in qualche modo l’alleanza tra questi due aspetti, tra la carità e l’obbedienza, risolve questa apparente antitesi. San Tommaso ha scritto questo testo che è davvero straordinario, ma perché? Perché in fondo i precetti della carità, di cui abbiamo parlato, vengono adempiuti dal Signore per obbedienza; e nello stesso tempo l’obbedienza di Cristo è esercitata a motivo dell’amore verso il Padre.

In questa ottica, capiamo anche quell’insegnamento che troviamo nel Vangelo e nelle Lettere di Giovanni, dove il Signore dice «se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14, 15); è l’amore che spinge all’obbedienza dei comandamenti, perché questi comandamenti si riconoscono come provenienti da Colui che è la bontà e la sapienza, per eccellenza. E dall’altra parte si adempie il precetto della carità proprio obbedendo ai comandi del Signore. Vedete che qui abbiamo l’antidoto verso quella mentalità anarchica, rivoluzionaria, sovversiva che è entrata anche nella Chiesa; e che vede invece erroneamente un contrasto tra l’obbedienza alla volontà del Padre – obbedienza espressa anche nei comandamenti – e la carità, quasi che la presenza di una debba far diminuire l’altra e viceversa. Invece, nella passione del Signore vediamo la sintesi perfetta di questi due aspetti.

Questi sono i due perni dei primi due articoli della quæstio 47: in che senso il Signore abbia subìto la passione, ma in realtà l’abbia anche voluta; e in che senso abbia obbedito alla volontà del Padre, ma lo abbia fatto anche per amore.

Ora, nell’art. 3, vediamo un altro tema importante: se Dio Padre stesso abbia consegnato il Figlio, Cristo, alla sua passione. Porsi questa domanda non è una perdita di tempo, perché dire che il Signore ha obbedito al Padre significa dire che il Padre ha voluto in qualche modo la sua passione e morte e quindi che lo ha consegnato ai suoi persecutori. Questa cosa potrebbe lì per lì sconcertare. Lo stesso san Tommaso riconosce che consegnare un innocente ai suoi aguzzini è empietà; perciò come possiamo pensare che il Padre abbia fatto una cosa del genere? Nella soluzione alla prima difficoltà, cioè sulla crudeltà di consegnare un innocente alla morte, Tommaso spiega: «Dio Padre consegnò Cristo non in questo modo [cioè non contro la volontà di Colui che veniva offerto], bensì infondendo in lui la volontà di patire per noi. E in ciò si mostra da una parte la severità di Dio, il quale non volle rimettere il peccato senza un castigo, per cui l’Apostolo scrive che “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio”; e dall’altra parte la sua bontà, perché, non potendo l’uomo soddisfare in misura sufficiente sopportando qualsivoglia castigo, Dio gli provvide un redentore capace di soddisfare, per cui l’Apostolo scrive che “lo ha consegnato per tutti noi”» (III, q. 47, a. 3, ad 1).

Testo densissimo. La «severità di Dio» indica la giustizia; e la giustizia vuol dire non rimettere un peccato senza che si ripristini l’ordine della giustizia, cioè senza il castigo che quel peccato, quei peccati hanno meritato. Dunque, la giustizia non può essere meramente bypassata, non ci si può passare di fianco girandosi dall’altra parte e dicendo “scusiamo tutti”. Questo è evidentissimo nella morte del Signore. Ma la misericordia dove sta? L’infinita bontà di Dio sta nel fatto che, poiché l’uomo non è in grado di soddisfare a questa giustizia, è Dio stesso che prepara Colui che può espiare e soddisfare.

Qui abbiamo dei termini importantissimi spariti dal nostro vocabolario, come soddisfazione ed espiazione, ma fondamentali per capire la passione del Signore. Il Signore non ha scelto la passione e la morte “solo” per mostrare un amore grande, ma anche perché c’era una giustizia da riparare. La giustizia è un bene che non può essere sacrificato: può essere superato, e Dio lo ha superato provvedendo Egli stesso a Colui che solo poteva soddisfare e ripristinare la giustizia. Non solo l’ha ripristinata, ma ha anche sovrabbondato rispetto a quella riparazione che era richiesta in un ordine di giustizia. Questo è molto importante.

San Tommaso ci dice: «In quanto Dio, Cristo consegnò se stesso alla morte con il medesimo atto di volontà con cui lo consegnò il Padre» (III, q. 47, a. 3, ad 2). Allora, qui abbiamo un punto fondamentale: la passione è opera della Trinità. È il Figlio incarnato che muore sulla croce, che viene flagellato, coronato di spine, crocifisso; eppure la passione e la redenzione è opera di tutta la Trinità. Qui vediamo come il Padre e il Figlio hanno un unico volere. E ciò richiama un testo importantissimo dell’Antico Testamento, precisamente del libro della Genesi (22, 1-18), dove c’è l’offerta di Isacco da parte di Abramo. Ora, tutta la tradizione ebraica ci dice che non fu solamente Abramo a voler offrire il figlio, ma fu Isacco stesso ad accettare la propria immolazione. È la cosiddetta Aqedah, cioè la legatura, letteralmente, di Isacco. Abramo lega il figlio Isacco, ma i testi della tradizione ebraica ci dicono che Isacco stesso chiede al padre di essere legato perché non avvenga che egli possa in qualche modo porre ostacolo a questo sacrificio. Abramo e Isacco sono immagine del Padre e del Figlio nell’offerta per la redenzione del mondo.

Gli altri due articoli che voglio rapidamente vedere sono il n. 5 e il n. 6, in cui san Tommaso affronta una questione importante, su cui pure c’è spesso equivoco, confusione. La prima domanda che si pone san Tommaso è questa: chi ha ucciso il Signore Gesù Cristo, sapeva chi era? Ora, la domanda anche qui non è oziosa, perché il Nuovo Testamento sembra – sottolineo “sembra” – contraddirsi al riguardo, perché da un lato abbiamo dei testi che lasciano pensare che gli uccisori sapevano bene chi fosse Gesù; e dall’altra abbiamo dei testi che invece lasciano pensare che non sapevano chi fosse il Signore. Per esempio, Gesù dice: «Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato» (Gv 15, 22). Dunque, c’è una consapevolezza che non scusa dal peccato coloro che rifiutano il Signore e che lo metteranno, da lì a poco, in croce. E ancora, poco più avanti, stesso capitolo: «Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro ha mai fatto, sarebbero senza colpa» (Gv 15, 24). C’è una colpa perché c’è una consapevolezza. Ancora, pensiamo a Matteo 21 e alla parabola dei vignaiuoli omicidi, che si capisce benissimo che cosa vuol dire. Ricordiamo: il padrone manda un servo, poi un altro servo, infine manda il figlio. E cosa dicono i vignaiuoli? “Questi è il figlio, se lo uccidiamo l’eredità sarà nostra”. Quindi sanno molto bene chi hanno davanti.

Però, dall’altra parte abbiamo Gesù che sulla croce perdona i suoi crocifissori «perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). Ancora, in uno dei suoi discorsi a Gerusalemme, Pietro dice: «So che avete agito per ignoranza, come i vostri capi» (At 3, 17). Sapevano o non sapevano? Cosa sapevano e cosa non sapevano?

San Tommaso innanzitutto distingue tra Giudei e Gentili, ritenendo i primi più colpevoli dei secondi e qui non è difficile seguire il suo ragionamento: i Gentili non avevano la Torah e dunque avevano meno consapevolezza, meno segni, meno riferimenti che gli permettessero di capire che Colui che veniva messo a morte era il Messia ed era il Figlio di Dio. Tra i Giudei, invece, san Tommaso distingue tra i maggiorenti, cioè i capi, e il popolo. E dice: «I maggiorenti, che erano detti loro principi, certamente lo conobbero (…). Essi però non conobbero la sua divinità (…). Invece il popolo (…) non conobbe pienamente né che egli era il Cristo, né che era il Figlio di Dio, sebbene alcuni del popolo abbiano creduto in lui. E anche se avessero avuto il sospetto che era il Cristo (…) i loro capi li avevano traviati» (III, q. 47, a. 5). C’è una diversità di consapevolezza e quindi di responsabilità tra i capi e il popolo.

Quanto al non sapere che Gesù Cristo fosse Dio, san Tommaso nella risposta alla prima obiezione corregge un po’ il tiro e dice: «Si può anche dire che lo conobbero come vero Figlio di Dio in quanto ciò risultava loro dall’evidenza dei segni, ai quali però per odio e per invidia non vollero arrendersi in modo da riconoscerlo come Figlio di Dio» (III, q. 47, a. 5, ad 1). I segni parlavano a favore non solo del suo essere Messia, ma anche del suo essere Dio. E tuttavia l’odio e l’invidia fecero sì che i capi dei Giudei si girassero dall’altra parte, per non vedere ulteriormente questi segni evidenti. Infatti, nella risposta alla terza obiezione, san Tommaso dice: questa possibile ignoranza sul fatto che fosse Dio era comunque un’ignoranza affettata. «L’ignoranza affettata non scusa dalla colpa, ma piuttosto l’aggrava» (III, q. 47, a. 5, ad 3). Che cos’è l’ignoranza affettata? È quell’ignoranza che nasce dal fatto di non voler sapere qualche cosa per poter essere più “liberi” di peccare, cioè non voler sapere qualcosa per non correre il rischio di dover cambiare vita. L’ignoranza affettata è fortemente sostenuta proprio dall’odio e dall’invidia. Ma giustamente Tommaso dice che questa ignoranza non scusa dalla colpa, anzi l’aggrava. A scusare totalmente dalla colpa è l’ignoranza invincibile; altri tipi di ignoranza possono in parte scusare dalla colpa, ma sotto altri aspetti si è comunque responsabili della propria ignoranza. L’ignoranza affettata, invece, accresce in qualche modo la responsabilità, non solo della propria posizione nei confronti della verità, ma anche degli atti conseguenti che uno compie e che non avrebbe compiuto se avesse aperto la propria mente e i propri occhi al vero. È importante questo aspetto.

Come dobbiamo intendere allora la frase fondamentale: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno»? Questa è una frase un po’ equivocata. San Tommaso richiama per due volte, prima nell’art. 5 e poi nell’art. 6, il commento di san Beda, un dottore della Chiesa, al Vangelo di Luca. San Beda, commentando proprio quelle parole di Gesù sulla croce, scrive: «Si noti che non prega per quanti capivano che egli era il Figlio di Dio e preferivano crocifiggerlo piuttosto che riconoscerlo». In altre parole, san Beda ci dice che questa frase del Signore non significa che Egli desse per scontato che tutti i presenti alla crocifissione non erano colpevoli, responsabili della sua morte, ma si riferisce solo a coloro che non sapevano quello che facevano. Quindi, ha un senso restrittivo.

Un altro testo di san Beda, riportato in questa quæstio da san Tommaso, dice così: «[Il Signore Gesù] Prega per coloro che non sapevano quello che facevano, operando con lo zelo di Dio, ma non secondo la scienza». Di nuovo, vedete come qui ci si riferisce a quella parte del popolo giudaico, e certamente del mondo pagano, che effettivamente non sapeva quello che faceva; quantomeno la loro responsabilità era diminuita dalla loro ignoranza: un’ignoranza spesso anche indotta dai loro stessi capi.

Quella frase non è dunque da intendere come se non ci siano dei responsabili della morte del Signore, come se nessuno abbia colpa perché tutti sono ignoranti: non è così. La tradizione della Chiesa ha prestato molta attenzione a comprendere queste parole e spiace molto quando, soprattutto nella predicazione, si sente dire che il Signore aveva scusato tutti e che nessuno sapeva quello che stava facendo: non è così. Ci sono altri passi del Vangelo in cui il Signore mette in chiaro che non avevano scuse precisamente a motivo delle opere che Egli compiva e che l’ignoranza che i capi del popolo avevano era un’ignoranza colpevole che aggravava la loro responsabilità. Nessuno ha la pretesa di dire chi fosse in una situazione e chi in un’altra e quanta consapevolezza c’era: il Signore ha già giudicato. Ma l’importante è non far passare l’idea di una scusa generalizzata del tipo “non sapevano, quindi l’ignoranza scusa tutti”. No, l’ignoranza non è l’ottavo sacramento… non è un sacramento che salva quando non salvano gli altri sette. L’ignoranza è una cosa molto seria, e può essere colpevole, un’aggravante del peccato, come abbiamo visto. Attenzione, dunque, a non fraintendere questa frase bellissima del Signore che perdona coloro che non sapevano pienamente quello che stavano facendo. Non è un condono universale e non è neanche la dichiarazione che nessuno sapeva quello che stava facendo.

La prossima volta continuiamo con la passione di Gesù: fin qui ne abbiamo visto le cause, la prossima volta vedremo invece i suoi effetti.



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