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IL DOCUMENTO

Il cristocentrismo del servizio di Pietro o perché esiste un solo Papa

Con la rinuncia di Benedetto XVI all’esercizio del ministero petrino, è subentrata una situazione completamente nuova nella storia del papato. Il titolo di “emerito” sul modello del vescovo diocesano trascura la caratteristica dell’unicità del Papa. Urge una riflessione sulla natura del sacro Primato petrino e che trasmetta chiarezza in mezzo a tante distorte rappresentazioni mediatiche. Il titolo “vicario di Cristo” significa che solo Cristo è il centro e che il successore di Pietro è tenuto a seguirlo fedelmente, annunciandolo come unico e vero Salvatore.

Documenti 10_01_2021

Pubblichiamo di seguito uno scritto del cardinale e prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede, Gerhard Ludwig Müller. I titoli interni sono redazionali.

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Con la rinuncia di Benedetto XVI all’esercizio del ministero petrino, dal 28 febbraio 2013, e a motivo dell’elezione di papa Francesco, il 13 marzo dello stesso anno, è subentrata una situazione completamente nuova, finora sconosciuta e addirittura impensabile, nella storia del papato e della Chiesa. Ad oggi, manchiamo dell’adeguata forma di pensiero e di linguaggio per allontanare da una parte, dal punto di vista ecclesiologico, l’idea eretica di un doppio vertice (come quando si parla di due Papi) e, dall’altra, per essere all’altezza del fatto che, secondo un attuale uso linguistico, adesso esiste un “vescovo emerito” e papa di Roma, che però non detiene più il ministero petrino. Il problema, per la verità di fede, nasce dal fatto che il vescovo di Roma, quale successore di Pietro, è il principio di unità che, appunto, dev’essere realizzato da una sola persona. Dal momento che l’esercizio del pieno potere papale dipende dal suo possesso, la distinzione tra la rinuncia all’ufficio e il suo esercizio risulta superflua. Poiché in realtà può esistere un solo papa, di conseguenza anche la distinzione terminologica tra un papa “in carica” e uno “emerito”, o tra il detentore attivo del primato romano e il partecipante passivo è in questo di poco aiuto.

VESCOVO EMERITO E UNICITÀ DEL PAPA

Il consueto rimando alla possibilità della nomina ad emerito del vescovo diocesano trascura la caratteristica dell’unicità del vescovo di Roma, che è personalmente il successore di Pietro e rappresenta così la roccia sulla quale Gesù edifica la sua Chiesa. La differenza sta nel fatto che il papa non è solamente, come gli altri vescovi, successore degli Apostoli nel Collegio di tutti i membri dell’episcopato. Il papa è specificamente e individualmente successore dell’apostolo Pietro, mentre i vescovi non sono successori di un singolo apostolo, ma degli Apostoli in generale (cfr. la mia esposizione del dogma sull’insegnamento e il primato di giurisdizione dei Papi secondo il Vaticano I e II in: Der Papst. Sendung und Auftrag, Friburgo 2017, 327-348).

Oltre a ciò, la rinuncia automatica all’ufficio dei vescovi diocesani, una volta raggiunta la soglia canonica dei 75 anni (non senza l’accettazione giuridica del Papa), si colloca in una forte tensione con l’elezione dei vescovi da parte di Cristo stesso nello Spirito Santo (cfr. Atti 20, 28), e quindi con il diritto divino dell’episcopato (LG 20). I vescovi delle Chiese locali non “devono essere considerati vicari dei romani Pontefici” (LG 27) e men che meno i delegati del papa, come per esempio i membri del Corpo Diplomatico vaticano, anche se questi ultimi, in quanto vescovi ordinati, appartengono d’altra parte alla costituzione sacramentale della Chiesa. Questa è indipendente dal primato di magistero e giurisdizione del papa, sebbene il collegio canonico di tutti i vescovi cattolici in comunione con il pontefice romano sia indispensabile dal punto di vista dogmatico. Altrimenti si macchierebbe del grave peccato di scisma (cfr. LG 22).

Anziché cercare di rendere plausibile la finora singolare condizione di emerito del vescovo di Roma, che “quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” (LG 23), rifacendosi allo stato di emerito degli altri vescovi, o addirittura normalizzando il diritto morale ad un pensionamento dopo una lunga vita lavorativa, dovremmo porci la sfida alla nostra comprensione della Chiesa sacramentale e del Primato petrino. Essa consiste nel fatto di trovare una possibile interpretazione teologica dell’attuale situazione di eccezione, per cui nel cuore della Santa Romana Chiesa attualmente sembrano vivere “due” successori dell’apostolo Pietro. Perché due persone non possono incarnare “il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” (LG 23). Il numero due, infatti, è in contrasto con il numero uno, la molteplicità con l’unità. Ogni molteplicità senza il principio di unità è esposta alla dissoluzione dell’intero (Aristotele, Metafisica XII, 10).

Il vescovo di Roma è successore di Pietro soltanto finché è vivente o finché non abbia rassegnato le dimissioni volontariamente. Le funzioni episcopali d’insegnamento, di guida e santificazione sono contenute essenzialmente nel sacramento della consacrazione, mentre il carisma dell’infallibilità ex-cathedra in rebus fidei et morum e il primato giurisdizionale appartengono al papa legittimo - dal momento che non esiste una consacrazione sacramentale del papa - soltanto fino a quando questi è in carica. Con la rinuncia volontaria alla carica, decadono definitivamente anche le prerogative papali o pieni poteri petrini. Troppo velocemente è stata tratta la conseguenza dalla complessa figura del vescovo emerito di New York o di Sidney a un possibile papa “emerito”. Perché il titolo di “papa” riguarda soltanto la designazione abituale del vescovo di Roma, a motivo delle sue prerogative a successore di Pietro. Ma ogni vescovo di Roma è successore di Pietro soltanto per quel tempo in cui è l’attuale vescovo di Roma. Non è successore del suo predecessore e per questo non possono mai esistere contemporaneamente due vescovi di Roma, papi e successori di Pietro.

De facto o de jure mere ecclesiastico non è neppure possibile che venga abbracciata un’ottica nella quale la statica dello ius divinum della costituzione divina della Chiesa o addirittura dell’insegnamento della fede de fide divina et catholica possano sembrar vacillare.

RAGIONI DELL’UNITÀ VS COMMENTI MEDIATICI

Di fronte alle impressioni dominanti delle immagini, i criteri teologici sono oggi più difficili da trasmettere, in quanto richiedono una comprensione mediante concetti e giudizi del pensiero. La Santa Sede sembra, detto tra parentesi, dare maggior peso al fenomeno del predominio dei media, dal momento che ha incrementato il numero di collaboratori del dicastero per la comunicazione, il quale, rispetto alla Congregazione per la Dottrina della Fede - che per il Magistero dei papi è molto più importante - è aumentato di trenta volte.

Nei media visivi laici ed ecclesiastici, con l’immagine visiva di “due papi” uno di fianco all’altro, è sorto il sottile problema di mettere a confronto i pontificati di due persone viventi. E qui, purtroppo, non deve sfuggire il fatto che, nell’era del pensiero laicizzato e dei mezzi di comunicazione di massa, punti di vista politici e ideologici finiscono per contaminare il giudizio teologico - cioè il modo di vedere della fede della missione soprannaturale della Chiesa. All’estremo, i principi della teologia cattolica vengono sospettati di ideologia “conservatrice” o “liberale”, a seconda dei punti di interesse. La valutazione positiva dell’uno o dell’altro pontificato vengono scambievolmente contrapposte a spese della parte avversaria.

Le prove di questo dannoso antagonismo dei pontificati di due attori viventi della storia attuale sono legione e si riflettono quotidianamente nei commenti dei giornali, dei blog, delle relative pagine web e dei film di propaganda. Per il popolo di Dio risulta di vero interesse spirituale e teologico non ciò che distingue il precedente papa dall’attuale nello stile personale, ma cosa unisce Benedetto XVI e papa Francesco nella preoccupazione per la Chiesa di Cristo.

Sono in gioco sia la dignità del ministero petrino che un papa precedente deteneva, sia il riconoscimento dei suoi meriti per la Chiesa, che sono da inglobare nelle riflessioni della sua collocazione ecclesiastica. Inoltre, la talare bianca o il fatto di chiamarlo Santo Padre, come anche la concessione della Benedizione Apostolica, non sono caratteristiche centrali. Si tratta della definizione della carica del vescovo di Roma, che è inscindibilmente legata alla successione di Pietro, insieme al Magistero petrino (primato di insegnamento e di giurisdizione). La proposta di riaccogliere il Papa precedente nel Collegio cardinalizio non si avvicina in verità al problema centrale, perché il punto è la relazione tra la carica del vescovo romano e le sue prerogative petrine. Ma a quale Chiesa locale è in relazione la sua dignità episcopale (come vescovo diocesano o titolare), se non può essere la Chiesa di Roma? Ci si potrebbe immaginare che diventi, nella cerchia più stretta della Chiesa di Roma, vescovo di Ostia, senza dover prendere attivamente la guida della diocesi, né dover partecipare attivamente, come cardinale, all’elezione papale o ancor meno come consigliere nei Concistori.

PRIMATO PETRINO E DOTTRINA

La descrizione del rapporto tra il papa precedente e quello attuale non può dipendere da considerazioni di stime personali, perché oggettivamente si tratta del ministero donato da Cristo. Come curatore dell’opera omnia di Joseph Ratzinger so stimare a sufficienza il suo genio teologico, così come vecchio frequentatore dell’America Latina so anche apprezzare l’instancabile impegno di papa Francesco per i poveri nel mondo; e - cosa incomprensibile agli strateghi - ho sempre interpretato i punti ambigui di Amoris Laetitia e di Fratelli tutti in modo leale, nella linea di continuità dell’insegnamento della Chiesa Cattolica. Ma si tratta della correctio fraterna, della quale, nella condizione di pellegrinaggio, necessitiamo tutti; soprattutto di fronte al pericolo di gravi incomprensioni, anche pubbliche, da parte di vescovi e cardinali romani, occorre difendere “la verità del Vangelo” (Gal 2, 14). San Tommaso d’Aquino, richiamando sant’Agostino, spiega che “perciò san Paolo, che pure era suddito di san Pietro, per il pericolo di scandalo nella fede lo rimproverò pubblicamente” (Summa Theologiae II-II, q. 33, a. 4, ad. 2). Analogamente i cardinali oggi servono il Papato più con argomenti capaci di resistere alle intemperie che non con futili panegirici, tanto più che anche Dante, nella sua Divina Commedia, ha posto gli adulatori nell’ottavo girone infernale - che qui però, con humor cristiano, non vogliamo richiamare senza un più grande riferimento alla misericordia di Dio.

Per l’immagine che la Chiesa trasmette oggi di sé stessa al mondo, è indispensabile con tutta serietà una profonda riflessione sulla “dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano Pontefice e del suo infallibile magistero” (LG 18).

È assolutamente chiaro che il Fondamento vivente e il sempre presente Fondatore della Chiesa non ha scelto il pescatore galileo Simone come primo apostolo e come Pietro-roccia, per dargli una piattaforma di autorealizzazione o per procacciare il guadagno e il pane all’apparato di corte, ma per farlo diventare il “servo dei servi di Dio”, che rinuncia a sé stesso. Così il santo papa Gregorio Magno (+ 604) descriveva il singolare ruolo del Romano Pontefice, in contrasto con l’idea di prestigio dell’allora patriarca di Costantinopoli, il quale, all’interno di un centro di potere, voleva fare della relazione reciproca dei vescovi una specie di tiro alla fune per ottenere cariche d’autorità, anziché mettere al centro del lavoro comune nel servizio apostolico la preoccupazione per la salvezza eterna.

Accenniamo solo tra parentesi alla classificazione, dal punto di vista dogmatico molto discutibile, delle caratteristiche del ministero petrino come meri titoli storici, così come vengono elencate nelle più recenti pubblicazioni dell’Annuario pontificio. L’umiltà è una virtù personale, che si addice molto bene ad ogni servo di Cristo. Ma non giustifica una sorta di relativizzazione dei pieni poteri che Cristo ha trasmesso agli apostoli e ai suoi successori per la salvezza degli uomini e l’edificazione della Chiesa. Perché proprio il cristianesimo si fonda nella realizzazione storica della salvezza; diversamente la storicità diventerebbe solo un vestito che cambia, del quale si riveste un mito senza tempo. Come Cristo è il Figlio consustanziale del Padre, nella divina unità trinitaria, e la terminologia cristologica si è sviluppata solo durante le grandi controversie storiche attorno alla verità del mistero di Cristo, così le qualifiche “successore di Pietro, vicario di Cristo e capo visibile di tutta la Chiesa” (LG 18) contrassegnano la verità intrinseca del primato romano, anche se questi titoli sono stati applicati al papa romano soltanto nel corso del tempo.

LA CONFESSIONE DI FEDE IN CRISTO

Non c’è dubbio che, secondo il volere di Dio, il vescovo di Roma sia il successore di Pietro e che eserciti, con l’autorità che Cristo gli ha conferito (Mt 16, 18), il “potere delle chiavi” su tutta la Chiesa. Insieme a Paolo, Simon Pietro, mediante il martirio cruento e incruento, cioè la testimonianza dell’“insegnamento degli apostoli” (Atti 2, 42), ha trasmesso alla Chiesa romana il suo perpetuo servizio all’unità dei fedeli e, una volta per tutte, ha ancorato la cattedra di Pietro alla sua terra (cfr. Ireneo di Lione, Contra Haereses, III 3, 3, scritto circa nel 180 d.C., poco dopo il suo soggiorno romano). Causa e centro del ministero petrino è la confessione di fede a Cristo, “perché lo stesso episcopato fosse uno e indiviso”. Per questo Gesù “prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione” (LG 18).

Come Pietro non è il centro della Chiesa, né il punto centrale del cristianesimo (grazia santificante e figliolanza divina), così però i successori alla sua cattedra romana sono, come lui stesso, i primi testimoni del vero fondamento e unico principio della nostra salvezza: Gesù Cristo, la Parola di Dio, suo Padre, fatta carne. “Dio, nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18). Gesù Cristo è l’unico Mediatore tra Dio e gli uomini (1Tm 2, 5).

“La Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità” (1Tm 3, 15) è la testimone e mediatrice dell’irrevocabile autocomunicazione di Dio, quale verità e vita di ogni uomo. Per questo essa non può assoggettarsi alle finalità generali di un nuovo ordine mondiale religioso-morale ed economico-sociale, realizzato dagli uomini, anche se i suoi “ideatori e custodi” dovessero riconoscere il papa, per ragioni onorifiche, come loro guida spirituale. Era infatti questo l’incubo apocalittico del filosofo russo Vladimir Solov’ev (1853-1900) nel suo famoso scritto Breve racconto dell’anticristo (1899). Lì però il vero papa, all’autodichiaratosi papa-imperatore, a capo dell’unico governo mondiale con i suoi filantropi e guardiani (che hanno, nel sottofondo del loro pensiero, le “idee dell’umanità” quale dio collettivo di Auguste Comte e l’illusione del superuomo di Nietzsche), oppone chiaramente la confessione del Regno di Dio: “Nostro unico Sovrano è Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente” (I tre dialoghi e Il racconto dell’anticristo, Genova 1996, 192).

Né nella dottrina della fede rivelata né nella costituzione sacramentale della Chiesa possono esistere “rivoluzioni” secondo un linguaggio politico-sociologico, o “cambiamenti di paradigma” scientifico-teoretici (per esempio, alla bolognese), perché questi si porrebbero a priori in netto contrasto con la logica della divina Rivelazione e con la volontà fondativa di Cristo quale fondatore e fondamento della Chiesa. Non sono le immagini costruite della Chiesa che gli ideologi dei media possono imporre ai fedeli, perché esiste solo un’immagine della Chiesa, “popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG 4).

NON C’È FRATELLANZA SENZA GESÙ

Ogni appello ad una “fratellanza universale” senza Gesù Cristo, l’unico e vero Salvatore dell’umanità, diventerebbe, dal punto di vista della Rivelazione e teologico, una corsa impazzita nella terra di nessuno, qualora il papa, a capo dell’intero episcopato, non riunisse sempre nuovamente i fedeli nell’esplicita confessione di Pietro a “Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Per questo la Chiesa del Dio trino non è in alcun modo una comunità di membri di una formazione religiosa umanitaria, che potrebbe fare a meno del Dio uno-trino personale ed essere condivisa persino dagli atei, nel senso dell’identificazione panteistica dell’essere con la finzione personificata del dio di Spinoza (deus sive substantia sive natura).

La Chiesa cattolica, “governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui” (LG 8), è la “casa di Dio”, e “colonna e sostegno della verità” (1Tm 3, 15). Questa è la verità di fede, che Gesù Cristo “si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria” (1Tm 3, 16).

Con il Concilio Vaticano II allora dobbiamo dire: poiché “Cristo è la luce delle genti” ne consegue la verità rivelata che “la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1). Ne deriva il rifiuto del pluralismo e relativismo religioso nella domanda di verità. “Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare” (LG 14).

Anche nel dialogo interreligioso con l’Islam dobbiamo dire in modo franco che Gesù Cristo non è “uno dei profeti” (Mt 16, 14), che ci rimanderebbe a un dio comune al di là dell’autorivelazione nel Figlio di Dio fatto uomo, “come se”, fuori dall’insegnamento della fede, nel nulla dei sentimenti religiosi - secondo parole religiose vane - “in fondo crediamo tutti la stessa cosa”. Non sono i cristiani ad attribuire a Gesù quanto i seguaci di Maometto o i razionalisti di Celso - contro i quali Origene ha scritto una grandiosa apologia - fino a Voltaire, rifiutano, perché incompatibile con il loro concetto normativo di Dio, inventato dalla ragione naturale. Perché soltanto Gesù rivela nella potenza divina il mistero di Dio: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27).

VICARIO DI CRISTO, CIOÈ DIETRO LUI

Questo è il cristocentrismo attorno al quale ruota il ministero petrino, cioè il primato della Chiesa romana, che dona a questo ministero il suo insostituibile significato per la Chiesa nella sua origine, nella sua vita e nella sua missione fino al ritorno di Cristo alla fine dei tempi. Per l’esercizio del papato non è senza significato che nei tre passi più importanti sul Primato petrino nel Nuovo Testamento (Mt 16, 18; Lc 22, 32; Gv 21, 15-17), Gesù richiami Pietro per le sue umane debolezze e per la sua fede instabile, gli ricordi il suo tradimento e lo rimproveri severamente per l’incomprensione della messianicità di Gesù, senza la Passione e la Croce. Gesù gli indica severamente il secondo posto, così che Pietro impari a seguire Cristo e non Gesù Pietro. L’ordine tra Gesù, Pietro e i restanti Apostoli non è modificabile. Il titolo di vicario di Cristo - nella comprensione teologica - non innalza il papa, ma lo umilia in modo decisamente singolare e lo svergogna davanti a Dio e agli uomini, quando “non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mt 16, 23). Perché Pietro non ha nessun diritto di adattare la Parola di Dio secondo il proprio parere e il gusto del tempo, “affinché la croce di Cristo non sia resa vana” (1Cor 1, 17).

Noi discepoli di Gesù siamo esposti, oggi come allora, all’abilità di Satana nel tentarci; egli ci vuole confondere nella fedeltà a Cristo, il Figlio del Dio vivente, che è “veramente il salvatore del mondo” (Gv 4, 42). Per questo Gesù dice a Pietro e a tutti i suoi successori sulla Cattedra romana: “Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede”, ut non deficiat fides tua. “E tu, quando ti sei nuovamente ravveduto, conferma i tuoi fratelli”, et tu conversus confirma fratres tuos (Lc 22, 32).