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Dei delitti e delle pene, ovvero: l’espiazione dimenticata

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Il recente caso di Emanuele De Maria, tra i tanti, dovrebbe portare a riflettere su quella corrente di ispirazione marxista che ha fatto accantonare la giusta pena, a favore di un “reinserimento” a volte troppo affrettato.

Attualità 21_05_2025
Un carcere in Francia (LaPresse)

A proposito di Emanuele De Maria, suicida buttatosi giù dal Duomo di Milano dopo avere ucciso una donna e ferito gravemente un collega. “Detenuto modello” era stato definito dalla giudice che gli aveva permesso di uscire dal carcere per lavorare in un albergo. In carcere c’era perché aveva trucidato, sette anni prima, un’altra donna.

Non entro nel merito della vicenda, già ampiamente trattata dai media. Solo, bisogna riflettere su una situazione che è ormai diventata endemica in Europa ma specialmente in Italia, Paese da lunga pezza plagiato dal catto-comunismo. Prendo spunto da una lettera inviata da Pasquale Griesi, segretario del sindacato di polizia Fsp, al blog di Nicola Porro. Inizia con un ricordo personale, un giovane disoccupato che gli chiede: «… non ho mai commesso alcun reato. Perché allora un pregiudicato ha un ottimo lavoro stabile e ben retribuito e io non riesco a trovare lavoro?». Eh già, i condannati godono di una corsia preferenziale per il cosiddetto “reinserimento”. Griesi aggiunge anche questa: «E ricordo che la Corte Costituzionale ha anche stabilito la possibilità di consumare rapporti sessuali con il proprio partner, visto che l’astensione è considerata lesiva della sfera dell’affettività. Non va dimenticato che chi è detenuto gode di una corsia preferenziale nei trattamenti sanitari al contrario di un qualunque cittadino che, se dovesse aver bisogno di un trattamento sanitario urgente, deve attendere». Beh, a questo punto non c’è che una cosa sensata da fare: smettere di chiamarlo Codice Penale e rinominarlo Codice di Reinserimento.

Anche il nostro presidente di lunghissimo corso ha ribadito di recente che il fine della giustizia è appunto il reinserimento del reo nella società. Si vede bene che la sociologia marxista ha ben lavorato in questi decenni, convincendo tutti, e non solo le c.d. toghe rosse, che la colpa del crimine è “della società”. Trasformando quest’ultima (tema su cui il fu Berlinguer insisteva in quasi tutti i suoi comizi), il crimine sparirà. Come ben sapevano i cittadini dell’Unione Sovietica. I nostri radical-chic ne erano così convinti che perfino Diabolik, che in uno dei suoi fumetti visitò la Cina maoista, proclamò che là lui, ladro e assassino, non sarebbe potuto nemmeno esistere (v. Diabolik in Oriente, 2002). Ho scritto “convincendo tutti”, e naturalmente non parlavo delle vittime e dei loro familiari. L’idea di “punizione” è stata talmente espunta dal nostro immaginario che le “misure alternative” sono entrate perfino in casa, nell’educazione dei figli, nella scuola, nella colpevolizzazione della legittima difesa.

Ebbene, se la corrente è questa è doveroso andarle contro, visto che l’intero cristianesimo si basa sul concetto di “espiazione”. Se il Peccato Originale fosse stato condonabile, Dio non lo avrebbe pagato di persona, resistendo anche alle suppliche di suo Figlio che nel Getsemani lo pregava, se possibile, di risparmiargli l’amaro calice. Quando Pietro cercò di distoglierne il Cristo, questi lo fulminò col celebre: «Vade retro, Satana!». La misericordia, infatti, disgiunta dalla giustizia è un’ingiustizia. Il beato Rosario Livatino, il giudice “ragazzino”, interrompeva le sue ferie per firmare i decreti di scarcerazione alla scadenza precisa, onde non far fare un giorno in più di galera al condannato. Ma neanche uno di meno. Senza la pena, giusta, commisurata e inesorabile, la società implode. E una società implosa si trasforma nell’Urss.

So bene che, purtroppo, il favore verso Caino alla faccia di Abele ha contagiato anche non pochi cattolici, ma nemmeno papa Francesco, che pur prediligeva le carceri, osò mai metterle in discussione come luoghi di, appunto, pena.