Vergine bella: la Madonna nella poesia di ogni tempo
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Da Petrarca a Manzoni, da Leopardi a Peguy, sono tanti gli autori che nei secoli hanno tessuto le lodi della Madre di Dio, invocandola per ogni necessità.
Petrarca: la bellezza della Vergine e la preghiera finale del Canzoniere
Nel Trecento l’eco dell’«Inno alla Vergine» di Dante si diffonde ben oltre la Commedia, influenzando l’altro grande capolavoro della letteratura italiana ed europea: il Canzoniere di Petrarca.
Il Canzoniere, che si presenta come un vero e proprio breviario laico composto da trecentosessantasei poesie, una per ogni giorno dell’anno, dedicate alla sua Laura, si conclude con una lode alla Madonna, la celebre canzone Vergine bella, che di sol vestita. È la preghiera finale di Petrarca, che chiede alla Vergine di liberarlo definitivamente dall’amore terreno per Laura e di intercedere presso Dio affinché la sua anima possa trovare pace in Paradiso. La costruzione è rigorosa: l’apostrofe «Vergine» apre il primo e il nono verso di ogni stanza, scandendo con solennità il ritmo della supplica.
Diversamente da Dante, che pone subito in risalto la maternità di Maria, Petrarca ne esalta la bellezza. Memore della visione del capitolo XII dell’Apocalisse – «Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle» – il poeta la invoca con queste parole che aprono la prima strofa: «Vergine bella, che di sol vestita,/ coronata di stelle, al sommo Sole/ piacesti sì che ’n te sua luce ascose».
La tradizionale invocazione alle muse, tipica della poesia epica, viene sostituita dalla richiesta di aiuto alla Vergine, affinché sia Lei a rendere possibile l’inizio del canto. Petrarca avverte tutta la sproporzione tra la sua caducità e la grandezza di Maria, Regina del Cielo. Se Dante ci presenta una Madonna intima e vicina alle miserie umane, Petrarca insiste invece su questa distanza, cercando di colmarla con un’invocazione lunga e reiterata, che ripete gli stessi concetti con insistenza. È una scelta poetica precisa: moltiplicare la preghiera significa ribadire più volte le proprie richieste davanti alla Vergine.
La canzone si dispiega così in dieci stanze. La Madonna è dapprima apostrofata come una delle «vergini prudenti», dai «begli occhi/ che vider tristi la spietata stampa» dei chiodi della croce. La bellezza non viene sminuita dalla sofferenza, ma anzi esaltata dall’amore sovrabbondante con cui Maria ha accompagnato la Passione del Figlio. Il celebre «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» di Dante diventa in Petrarca «del tuo parto gentil figliuola e madre», mentre le immagini dantesche della «meridiana face di caritate» e della «fontana vivace di speranza» si traducono in due azioni concrete: «Allumi questa vita e l’altra adorni».
Maria è la nuova Eva, strumento del Cielo: grazie al suo «sì» sono stati possibili l’Incarnazione e la Redenzione. È «Madre, figliuola e sposa», «Vergine gloriosa», «vera Beatrice», colei che ha «fatto ’l mondo libero e felice». Grazia sovrabbondante che soccorre la miseria umana, la Madonna diventa per Petrarca l’unica speranza. Il poeta rimpiange di aver inseguito per anni «mortal bellezza, atti e parole», che hanno «tutta ingombrata l’alma» tra «miserie e peccati». Ora, giunto «forse a l’ultimo anno», ripone ogni fiducia nella Vergine, chiedendole di non guardare ai suoi meriti, ma all’«alta sembianza» di Dio impressa come sigillo anche nel suo cuore misero.
Alla fine, Petrarca si rivolge alla «umana e nemica d’orgoglio», la creatura umile per eccellenza, con un’ultima invocazione: «miserere d’un cor contrito, umile,/ ché se poca mortal terra caduca/ amar con sì mirabil fede soglio,/ che devrò far di te, cosa gentile?». Il poeta riconosce che, se ha amato con tanta intensità una creatura mortale, ancor più dovrebbe amare la Madonna. Promette che, se riuscirà a rialzarsi dalla sua condizione misera e vile, consacrerà a Lei tutta la sua opera, il cuore e i pensieri. Nel congedo, non si rivolge alla canzone – come accade di solito in questa forma metrica – ma direttamente alla Vergine: raccomandami al tuo Figliuol, verace omo e verace Dio, ch’accolga ’l mio spirito in pace.
La Madre, dunque, non può che condurre al Figlio, al vero Redentore dell’umanità. In questa umiltà e in questo amore materno che vuole salvare tutti i suoi figli, risplende ancora di più la bellezza di Maria. Nell’inno petrarchesco, l’incertezza riguarda solo l’umano, la nostra capacità di aderire al disegno divino, mai la presenza e la bontà del Creatore.
Manzoni: la Madonna, madre e consolatrice universale
Con Alessandro Manzoni, la Madonna torna protagonista negli Inni sacri. È madre partecipe della missione di Gesù, presente nella storia della Chiesa e vicina a ciascuno di noi. Nel Natale «la mira Madre» compone il Figlio in poveri panni e lo depone nel presepio; nella Passione resta ai piedi della croce accanto a Giovanni, vivendo il dolore estremo di una madre. Nel Nome di Maria Manzoni attesta che ogni popolo ha conosciuto la grandezza della Vergine, invocata dal bambino impaurito, dal navigante in pericolo, dalla donna che affida a Lei le sue pene. La Madonna ascolta le suppliche «non come suole il mondo», e a Lei ogni popolo innalza il canto: «Salve, o degnata del secondo nome,/ o Rosa, o Stella, ai periglianti scampo».
Leopardi: l’invocazione mariana nell’Appressamento della morte
Nel 1816, Giacomo Leopardi scrive L’appressamento della morte, componimento in terzine dantesche che sorprendentemente si chiude con un’invocazione alla Madonna. Il giovane poeta chiede soccorso alla Vergine nell’ora estrema: «Deh tu m’aita ne l’orrendo passo». È la certezza che, grazie a Maria, potrà rivolgersi al Redentore con fiducia. Una rilettura integrale dell’opera leopardiana mostra altre invocazioni mariane, segno di una sensibilità religiosa più profonda di quanto spesso si creda. Negli anni napoletani, Leopardi ebbe rapporti stretti con i Gesuiti e, secondo la testimonianza di padre Francesco Scarpa, si confessò e si riconciliò con Dio. La preghiera giovanile alla Vergine di stargli vicino «all’appressamento della morte» trovò così compimento.
Peguy: la fiducia quotidiana di un padre nelle mani della Vergine
Nel Novecento, Charles Peguy (1873-1914) offre una voce nuova e intensa. Nel poema Il portico del Mistero della seconda virtù racconta la preghiera di un padre che, guardando i propri figli, li affida con umiltà alla Madonna: «Prendeteli. Io ve li lascio. Fatene quel che volete». Colei che fu madre di Cristo diventa madre anche dei bambini affidati, fratelli di Gesù e destinatari della sua venuta nel mondo. Da quel gesto intimo e affettuoso tutto cambia: il padre «se n’è andato a mani vuote», ma con la certezza che i suoi figli sono nelle mani della Vergine. Peguy descrive così la nuova condizione del genitore: semplice affittuario dei suoi bambini, mentre la piena proprietà appartiene a Dio, «buon proprietario» che custodisce con amore.
La Madonna protagonista della nostra letteratura: un filo che attraversa i secoli
La centralità della Madonna nella nostra tradizione culturale. Una vastissima produzione artistica e letteraria ha consacrato, nel corso dei secoli, la bellezza di Maria, Madre di Dio.


