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HARVARD & CO.

Università contro l'Occidente, la sfida di Trump ci riguarda

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Il braccio di ferro ingaggiato dal presidente americano contro Harvard e Columbia, diventate culla dell'ideologia gender, dell'antisemitismo e del filo-islamismo deve far riflettere sul ruolo delle università e il diritto-dovere dello Stato di far rispettare l'interesse nazionale e i princìpi alla base del diritto.

Editoriali 02_06_2025

La rovente polemica tra il presidente statunitense Donald Trump e l'Università di Harvard, seguita a un analogo, rude confronto con la Columbia di New York, non è affatto un avvenimento secondario nella vicenda del secondo mandato del leader MAGA e nel presente contesto politico, ma deve spingere a una riflessione più complessiva sul ruolo delle università, e in generale delle istituzioni della formazione e della cultura, nelle democrazie liberali occidentali.

L'offensiva di Trump nei confronti del più grande ateneo della Ivy League è stata da lui motivata, come è noto, dalla reazione all'ideologizzazione di essa in senso anti-occidentale e anti-israeliano, alla censura verso le opinioni conservatrici al suo interno, ai legami preoccupanti tra essa e gli interessi della Cina. Essa è sfociata nella minaccia di congelamento di ingenti finanziamenti e sgravi e nel divieto di ammissione agli studenti stranieri. Come era prevedibile, la diatriba è stata riportata dal grande "partito unico" dei media "trumpofobi" e progressisti/woke additandola come un attacco barbaro del presidente alla libertà di insegnamento e di pensiero, una illiberale discriminazione fondata su motivi ideologici.

Al di là dell'ironia che può suscitare la nobile protesta in favore della libertà di pensiero agitata come al solito a corrente alternata (la libertà delle opinioni di sinistra sarebbe sacra, quella delle opinioni conservatrici all'interno degli atenei, chissà perché, no), è evidente che da questo scontro radicale, come sono spesso quelli intrapresi da Trump, emerge una questione centrale, ineludibile: quali obblighi le università e le istituzioni culturali hanno nei confronti dei principi fondanti di una comunità civile fondata sul costituzionalismo liberale e sui diritti inalienabili dell'uomo? E, per converso, quale funzione di garanzia spetta, in proposito, ai pubblici poteri? Fino a che punto possono intervenire per assicurare che i principi della comunità siano rispettati?

Per dare una risposta coerente, non opportunistica, a queste domande occorre innanzitutto porre mente al rapporto molto particolare che vige, nell'ordinamento dell'istruzione statunitense, tra Stato (per meglio dire government, inteso come insieme delle istituzioni politiche) e privato. In Europa siamo abituati a un sistema scolastico e universitario in cui la gran parte degli istituti è di proprietà statale e finanziata interamente, o pressoché interamente, dallo Stato, i programmi di studio sono stabiliti nelle loro linee guida per legge, e – come nel caso italiano – i  docenti sono assunti con procedure concorsuali pubbliche.

Negli Stati Uniti, come in altri Paesi di area anglosassone, vige viceversa una situazione molto più varia e complessa: numerose scuole e università, in particolar modo quelle di maggiore prestigio e più antica tradizione, sono di proprietà privata, laica o religiosa, ma ne esistono in gran numero di pubbliche, in genere gestite dagli Stati. Va ricordato però che negli Stati Uniti le prestigiose università private della Ivy League - equiparate a enti non profit, ossia sostanzialmente a quelle che noi chiamiamo Onlus - vengono anche copiosamente finanziate dal governo attraverso contratti tra le agenzie federali e gli atenei per forniture di servizi, e al tempo stesso agevolate da un generoso sistema di contributi federali e dei singoli Stati, sotto forma di esenzioni, deduzioni e sgravi fiscali.
Esse sono esenti dalle imposte sul reddito e sulla proprietà, e godono di totale esenzione fiscale, oltre che di deducibilità delle donazioni che ricevono da privati. A ciò vanno aggiunti, poi, i finanziamenti pubblici per pagare le onerosissime rette di iscrizione a studenti bisognosi e meritevoli, e le procedure super-agevolate per l'ottenimento del visto di studio da parte di studenti stranieri, attraverso programmi federali. 

Ora, rispetto alle università della Ivy League i commentatori liberal tendono a ripetere la stessa argomentazione in malafede spesso usata nel caso della libertà di espressione e della censura sui social media: «È un'azienda privata, fa quello che vuole». Ovviamente, tale argomentazione viene usata solo quando il proprietario di un social censura le opinioni conservatrici, o avverse ai dogmi dell'ideologia woke. Mentre se, come è stato il caso di Twitter/X da quando è diventato proprietà di Elon Musk, consente libero accesso a quelle opinioni, gli stessi invocano la censura pubblica in nome della lotta a quelli che loro definiscono "crimini di odio", cioè a tutte le idee che a loro non piacciono.
È evidente, invece, a chiunque non sia prevenuto ideologicamente che, per quanto i social media siano privati, essi non sono equiparabili a editori e la libertà di espressione in qualunque senso dovrebbe essere sacra, e fatta rispettare per legge.

Ma il caso di Harvard e di altri atenei statunitensi non si può nemmeno equiparare a questi citati. Come abbiamo detto, quegli atenei sono considerati enti di pubblica utilità, e ricevono in varie forme un imponente foraggiamento pubblico. Se, come accade a Harvard, in essi l'insegnamento viene sistematicamente piegato alla propaganda ideologica gender/LGBT+, anti-occidentale, anti-israeliana, con punte di esplicito antisemitismo e di favoreggiamento a gruppi violenti come Hamas; se gli studenti ebrei vengono sistematicamente discriminati e rischiano la loro incolumità; se, viceversa, esse diventano terra di conquista di estremisti mediorientali; se offrono ampia accoglienza a studenti cinesi che poi mettono a disposizione il loro know how, o addirittura rivelano dati sensibili, al regime dittatoriale di Pechino: allora non si può ridurre la questione a policies liberamente scelte da un'azienda privata, ma il governo federale ha il diritto, se non il dovere, di intervenire per far rispettare i principi che sono alla base del diritto e delle istituzioni americani, nonché l'interesse nazionale.

Ed è quello che Trump, appunto, sta facendo con i suoi abituali modi rudi e senza convenevoli, sapendo quanto l'ultramiliardario ateneo tenga comunque ai privilegi enormi ad esso concessi dalle pubbliche istituzioni. Più in generale, che si tratti di atenei privati o pubblici, la riduzione della cultura a propaganda e la censura al pluralismo delle idee dovrebbero essere scoraggiati, disincentivati, impediti in ogni modo.

Naturalmente, il blocco totale dei colloqui per l'ammissione di studenti stranieri di qualsiasi provenienza, se fosse una misura messa "a regime", sarebbe ingiustificabile, perché andrebbe a ledere i diritti di giovani provenienti da ogni parte del mondo, il cui obiettivo è solo quello di condurre studi al massimo livello. Ma come arma di pressione verso un'istituzione che sa di avere tutto da perdere da un braccio di ferro senza quartiere con il suo principale benefattore, per spingerla a dare garanzie di correggere le sue derive illiberali, è del tutto comprensibile.

Certo, sarebbe ancora più limpido (negli Stati Uniti ma ancor più nel vecchio continente, malato cronicamente di statalismo gregario) un sistema in cui neanche un centesimo delle tasse versate dai contribuenti andasse a finanziare aziende culturali private (con l'eccezione, forse, delle borse di studio), e dove innanzitutto un autentico pluralismo e la libera concorrenza integrale di metodi e idee, insieme all'obbligo rigoroso del rispetto del free speech, fossero la più solida garanzia della libertà.

 



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