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OBIETTIVI

Ucraina, si cerchi anzitutto una "pace possibile"

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Un certo modo di invocare la "pace giusta" implica soltanto l'allargamento della guerra e non la sua fine. Va invece trovata una soluzione per far tacere le armi prima possibile, come primo passo per un auspicabile cammino di riconciliazione.

Editoriali 19_08_2025

Con l’avvicinarsi di una proposta per un accordo che metta fine alla guerra in Ucraina, si moltiplicano di nuovo gli appelli per una «pace giusta». Che però, nel significato che viene dato al concetto dal presidente ucraino Volodymir Zelensky e dai principali leader europei, implica la prosecuzione della guerra fino a sconfitta russa. «Pace giusta», infatti, per costoro significa semplicemente il ristabilimento dei confini precedenti il febbraio 2022 (o anche 2014 con la riconquista della Crimea), quando le truppe russe hanno invaso l’Ucraina.

Sebbene la resistenza ucraina sia stata molto maggiore di quanto fosse previsto dai russi, che prevedevano di chiudere la partita in pochi giorni, e dai maggiori esperti di difesa, la situazione sul campo vede comunque un’avanzata russa su tutti i fronti e il rischio del collasso definitivo dell’esercito ucraino.
Essendo una pia illusione che le forze ucraine siano in grado da sole di rovesciare la situazione e riprendersi tutti i territori persi, è chiaro che l’unica possibilità di ottenere quel tipo di «pace giusta» sta solo nel coinvolgimento diretto dei Paesi occidentali. Continuare ad agitare questo slogan significa dunque auspicare un allargamento della guerra e non la sua fine.

D’altra parte qualsiasi guerra, con il suo carico di morte e distruzione, è destinata a cambiare gli scenari, per non parlare del carico di odio che genera; ripristinare semplicemente la situazione precedente è pura utopia. Nella storia non c’è un solo esempio di guerra terminata con una «pace giusta» nell’accezione sopra descritta.

Vuol dire allora rassegnarsi alla legge del più forte e premiare l’aggressore? Certamente no, ma il concetto di giustizia è più ampio del ripristino dell’integrità territoriale, come avevamo già spiegato alcuni mesi fa: se l’ordine distrutto dalla guerra va ripristinato, esso è da intendersi «come un ordine naturale finalistico, i cui fini sono e rimangono attuali anche dopo il conflitto e possono indicare alcune linee di condotta. Per esempio, prendiamo il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Esso vale, fatte le debite distinzioni, per il popolo ucraino davanti all’invasione russa, ma vale anche per il popolo ucraino manovrato dalle potenze occidentali, e vale anche per le popolazioni russofone del Donbass a lungo discriminate dal popolo ucraino. Non si tratta allora di tornare a come era prima, ma di far valere le linee forza di un finalismo di ordine naturale».

Il primo passo, su un piano politico e diplomatico, è comunque quello di mettere fine a una carneficina senza prospettive. Due condizioni poste dal Catechismo della Chiesa cattolica per rendere legittima la difesa armata da un aggressore sono: «che ci siano fondate condizioni di successo» e «che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare» (CCC no. 2309).

Bastano queste condizioni per comprendere che la prima cosa da cercare è la «pace possibile» nell’attuale situazione, trovare un accordo che eviti di umiliare l’una o l’altra parte: se un sacrificio territoriale dell’Ucraina a questo punto è inevitabile dovrà essere bilanciato almeno dalla rinuncia a interferire sulle scelte politiche di Kiev e da garanzie di sicurezza. Avendo anche ben presente che, piaccia o meno, la questione ucraina è solo un particolare di una partita molto più ampia. Non è un caso che nel vertice in Alaska del 15 agosto i presidenti americano e russo, Donald Trump e Vladimir Putin, abbiano discusso di molte altre questioni che attengono al rapporto tra le due superpotenze.

Discorso analogo si deve fare per il conflitto israelo-palestinese: se la soluzione “due popoli, due Stati” poteva essere praticabile 78 anni fa, quando è stata approvata dall’Assemblea generale dell’ONU, oggi è diventata irrealistica e serve solo come slogan politico. La «pace possibile» deve trovare un’altra soluzione politico-giuridica pur salvando il principio della convivenza.

Chi si scandalizza per un esito che premierebbe l’aggressore, dovrebbe ricordare che il mondo come è oggi è figlio di tante paci “ingiuste” o di espansioni ingiustificabili, che pure sono riconosciute o tollerate: dalla partizione dell’Irlanda alla divisione di Cipro, dal Tibet annesso alla Cina alle due Coree, gli esempi si possono moltiplicare. Spesso si ha a che fare con situazioni “congelate” o con assenza di guerra che però è molto lontana dalla pace, dove le tensioni sono pronte a riesplodere alla prima occasione: la situazione nei Balcani ne è un esempio.

E qui si comprende che porre termine a un conflitto, trovare la «pace possibile» è solo un primo passo per poter arrivare a una pace vera, come ben spiega il Compendio per la Dottrina Sociale della Chiesa: «La Chiesa insegna che una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono e dalla riconciliazione. Non è facile perdonare di fronte alle conseguenze della guerra e dei conflitti, perché la violenza, specialmente quando conduce “sino agli abissi della disumanità e della desolazione”, lascia sempre in eredità un pesante fardello di dolore, che può essere alleviato solo da una riflessione approfondita, leale e coraggiosa, comune ai contendenti, capace di affrontare le difficoltà del presente con un atteggiamento purificato dal pentimento. Il peso del passato, che non può essere dimenticato, può essere accettato solo in presenza di un perdono reciprocamente offerto e ricevuto: si tratta di un percorso lungo e difficile, ma non impossibile» (no. 517).

Far tacere prima possibile le armi è dunque fondamentale per non aggiungere altre difficoltà a un cammino, già molto difficile, che porti alla riconciliazione.

 



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