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Il caso

Belgio, il grido di Siska: vuole l’eutanasia per la mancanza di cure

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Siska De Ruysscher è una ventiseienne belga, depressa, che dopo vari tentativi di suicidio ha deciso di ricorrere all’eutanasia. Il motivo? Un sistema sanitario che, a parte poche eccezioni, la tratta in modo disumano. Segno che ha bisogno non di essere uccisa ma di cure e amore.

Vita e bioetica 28_10_2025
Siska, da Facebook

«Mi chiamo Siska. Ho 25 anni [oggi 26, compiuti il 17 ottobre 2025, ndr] e da molti anni lotto contro un disturbo depressivo acuto, un disturbo da stress post-traumatico, un disturbo dell'attaccamento e pensieri suicidi. Dopo una lunga lotta con un sistema sanitario in difficoltà, ho deciso che porrò presto fine alla mia lotta con l'eutanasia». Inizia così un lungo post pubblicato su Instagram da Siska De Ruysscher, ragazza belga che presto si toglierà la vita perché è da quando aveva 13 anni che soffre di depressione e non è riuscita a trovare aiuto.

Siska continua così il suo testamento accusatorio nei confronti del sistema sanitario belga: «Posso contare su una mano i "buoni" operatori sanitari che ho incontrato, ma purtroppo quelli cattivi potrebbero riempire diverse mani». A 15 anni viene ricoverata per la prima volta in psichiatria: «Una ragazza spaventata, ansiosa e ferita, alle prese con pensieri suicidi e tentativi di suicidio, mi sono ritrovata circondata da persone con ogni tipo di problema e bisogno: depressione, dipendenza, anoressia, autismo, disturbi comportamentali e altro ancora». Insomma, non il miglior ambiente per un’aspirante suicida. Il racconto così prosegue: «Durante la mia degenza, tutti hanno seguito lo stesso programma, indipendentemente da ciò che avrebbe potuto effettivamente aiutarli o dal supporto aggiuntivo di cui avessero bisogno». Per riuscire ad ottenere un percorso minimamente personalizzato Siska dovette iniziare uno sciopero della fame.

«Prendevo antidepressivi da diversi anni, prescritti dal mio psichiatra infantile all'epoca. Ma al momento del ricovero, il dosaggio è stato drasticamente aumentato, senza il mio consenso. "Non dormi bene?". Altri sonniferi. "Hai ancora pensieri depressivi?". La dose è stata aumentata di nuovo. E questo è continuato per tutta la mia degenza. Sono arrivata al punto in cui non sapevo più se fossi sveglia o addormentata. […] Le conseguenze sono state estreme, eppure a nessuno sembrava importare, nessuno prendeva la situazione sul serio. Ho preso 20 chili e ho tentato il suicidio più volte, perché tutte le mie inibizioni, paure e limiti erano scomparsi sotto l'effetto di farmaci così pesanti. Com'è possibile che a minori e adolescenti vengano prescritte dosi così elevate di farmaci potenti, senza comprenderne o accettarne le conseguenze?». Siska poi ricorda che è stata messa in una stanza di isolamento perché non c’era abbastanza personale per controllarla nella sua stanza dove stava abitualmente.

Ma non è finita: ci sono psicologi che «continuano a farvi le stesse venti domande standard dei loro manuali di formazione e addirittura vi chiamano con il nome sbagliato, perché vi vedono come un numero, non come una persona. Infermieri negli ospedali che dicono "È tornata di nuovo", dopo l'ennesimo tentativo di suicidio, alzando gli occhi al cielo... invece di ascoltare, essere presenti e offrire un aiuto concreto o una guida adeguata. E le liste d'attesa, già insopportabilmente lunghe, dove il tuo caso deve essere "abbastanza serio" solo per essere promosso un po' più velocemente. Mi sono sentita sola, profondamente sola e abbandonata, più e più volte. Abbandonata da amici che non capivano, da persone care che hanno perso la vita, da chi mi assisteva e da situazioni a cui ho assistito o che hanno lentamente eroso la mia fiducia».

Un giorno, quando aveva 18 anni, dopo aver tentato di togliersi la vita, viene portata ad un comando di polizia «dove sono stata interrogata da un'agente donna. "Vedo che hai tre sorelle, fammi indovinare, tutte in istituti?"; "I tuoi genitori, disoccupati o donne delle pulizie?". Questo era il tipo di domande che mi venivano poste, appena mezz'ora dopo aver desiderato di buttarmi sotto un treno, quando tutto ciò di cui avevo bisogno era aiuto, essere ascoltata, essere accudita. […] Mi portarono in ospedale, dove mi dissero di spogliarmi completamente e mi misero in isolamento». Siska chiedeva perché doveva finire in isolamento, perché le stessero iniettando dei farmaci e molti altri “perché” a cui seguiva sempre la medesima risposta: «È la procedura». Da qui la rabbia della giovane donna: «Dovremmo davvero considerare normale che le persone bisognose di cure vengano trattate come criminali? Che subiscano ulteriori traumi e ricevano tutto tranne cure e compassione? Non è forse giunto il momento di rivedere le procedure in Belgio? […] Come possiamo prenderci cura di noi stessi in una società che non sa cosa significhi veramente "prendersi cura"? Sono etichettata come vittima di "fallimento terapeutico" e sto iniziando a capire che è esattamente così».

Ecco allora che Siska, amaramente cosciente che la sua parabola esistenziale poteva essere disegnata in modo diverso, ha deciso di deporre le armi del combattimento: «E se, a tredici anni, fossi stata considerata e ascoltata, se avessi ricevuto le cure giuste e se avessi trovato le persone giuste per aiutarmi, oggi sceglierei l'eutanasia? O avrei ancora la forza di affrontare la vita? Sono stanca di lottare. La mia fiducia nel sistema sanitario è svanita, o meglio, ho cercato di dargli una seconda possibilità così tante volte, nel corso di così tanti anni. Più e più volte, sono rimasta delusa dagli operatori sanitari o ho vissuto ulteriori traumi».

La testimonianza di Siska ci dice molte cose. La prima, la più importante e la più ovvia: si vuole morire perché si è infelici. Non si è mai visto nessuno felice di vivere voler togliersi la vita. Dunque il problema è il dolore di vivere. L’eutanasia elimina chi soffre, mentre la medicina, insieme all’affetto di parenti e amici, vuole eliminare la sofferenza. L’eutanasia uccide la persona, la medicina e i parenti uccidono la sofferenza. Dunque, non assecondiamo istinti suicidi dettati dalla depressione, ma offriamo strumenti per eliminare la depressione. Curiamo la causa, non assecondiamo gli effetti di questa causa, ossia non assecondiamo le richieste eutanasiche.

In questo lungo post leggiamo poi la volontà estrema di Siska di vivere. Questa ragazza ha tentato per 40 volte circa di togliersi la vita. Chi vuole veramente uccidersi lo fa e basta. I tentativi di suicidio sono richieste gridate di aiuto. Ogni tentativo volutamente andato a vuoto grida al mondo questa semplice verità: “Voglio vivere, aiutatemi!”. Questa sete ardente di vita innerva anche questo suo particolarissimo testamento: Siska non parla della sua depressione, dei demoni oscuri che abitano il suo cuore e la sua mente, del buio fitto in cui è affogata. Nulla di tutto questo: parla della mancanza di aiuto. Della mancanza di cura, di affetto e di amore verso la sua persona. È stanca non di vivere, ma di combattere per essere aiutata a vivere.

Ciò che la sta uccidendo non è la depressione, ma l’assenza di cura, di attenzione, di speranza da parte dei medici. Muore per inedia d’amore. Ma non può che essere così. Una società, un ordinamento giuridico, un sistema sanitario che contemplano la possibilità di uccidere un innocente, non possono che, a monte, essere già inclini all’incuria, all’asettico trattamento spersonalizzante del paziente ridotto a numero, al tradimento del giuramento di Ippocrate, alla rinuncia della cura. L’eutanasia allora è la conseguenza di una medicina già disumana e disumanizzante. In questa prospettiva l’eutanasia è l’ultima tappa, la più estrema, la più significativa di questo approccio volto all’abbandono terapeutico. È la firma al fallimento terapeutico denunciato da Siska. È l’apoteosi dell’indifferenza. È l’esito naturale, logico, inevitabile di mancanza di compassione, di pietà – lo vogliamo dire – di carità. Non solo dei medici, ma di tutti noi.

«Un caloroso abbraccio, Siska». Chiude così la sua lettera. E anche noi, in chiusura, ti abbracciamo.



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