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IRAQ

Tutte le ambiguità della coalizione anti-Isis

Gli Usa ampliano le operazioni aeree contro il Califfato in Iraq. Ma senza un'operazione di terra sarebbe impossibile sconfiggere quello che, ormai, è diventato un vero e proprio Stato, con un esercito di 50mila uomini. Se gli Usa dicono e negano sull'uso di truppe di terra, l'Iran e Assad sono esclusi.

Esteri 17_09_2014
Decollo

Gli Stati Uniti allargano le operazioni aeree contro lo Stato Islamico e per la prima volta hanno compiuto raid vicino a Baghdad contro gli integralisti sunniti che cercano di avanzare verso la capitale irachena. Secondo quanto riferito dal Pentagono aerei di guerra americani hanno compiuto ieri mattina un attacco vicino a Baghdad e un altro vicino al Monte Sinjar, nel nord dell'Iraq. Dal 9 agosto i jet e i droni statunitensi hanno effettuato 162 missioni di combattimento distruggendo una sessantina di veicoli e mezzi blindati per lo più nel settore curdo, tra Erbil e la diga di Mosul. Missioni tese soprattutto a difendere il Kurdistan dove sono presenti centinaia di militari e civili statunitensi. Da un paio di settimane i velivoli americani hanno allargato le operazioni anche ad altre aree colpendo i jihadisti intorno alla diga di Haditha e in altre aree della provincia di al-Anbar su richiesta delle autorità di Baghdad che lamentavano lo scarso appoggio aereo ricevuto finora dagli americani.

Nonostante il probabile incremento dei raid e l’ampliamento dell’area operativa dei velivoli americani un rapido successo contro il Califfato potrà essere ottenuto solo invadendo il territorio occupato dai jihadisti, unica strategia efficace e sensata per impedire che Abu Bakr al-Baghdadi continui ad attrarre migliaia di volontari pronti per il jihad da tutto il mondo islamico.

Lo Stato Islamico non è più un movimento insurrezionale e terroristico ma controlla un territorio vasto quanto il Regno Unito, uno Stato con un’amministrazione pubblica, province, un sistema giudiziario e scolastico, l’esazione delle tasse e un esercito stimato dalla CIA in oltre 30 mila uomini ma che secondo altre stime raggiungerebbe i 50 mila effettivi.

Contro il Califfato l’unica guerra che ha un senso è quella convenzionale, con un’offensiva condotta simultaneamente da più direzioni con forze terrestri con l’appoggio aereo dell’aeronautica siriana e statunitense con il contributo delle piccole forze aeree di Baghdad o di eventuali altri Paesi occidentali.

Un’operazione simile, da effettuare con reparti convenzionali, porterebbe in poche settimane alla liberazione di Mosul, Tikrit, Fallujah e Raqqa, aree che occorrerebbe poi stabilizzare con una seria politica di inclusione (non di rappresaglia) nei confronti della popolazione sunnita che sostiene o tollera lo Stato Islamico.

Di fatto un attacco simile a quelli effettuati dagli anglo-americani contro l’Afghanistan dei talebani nel 2001 e contro il regime iracheno di Saddam nel 2003, ma che contro il Califfato non è attuabile perché gli Stati Uniti mettono in campo solo aerei e unità di forze speciali e gli altri membri della Coalizione ancor di meno, preparando così il terreno a una guerra lunga del tutto ingiustificata sul piano militare. La rinuncia statunitense a impiegare forze terrestri e l’inconsistenza militare dei contributi simbolici offerti per ora dagli altri 30 Paesi della Coalizione lascia cadere il peso delle operazioni sul terreno sulle forze locali.

I curdi sono pochi per compiere offensive su vasta scala ed è già molto che riescano a difendere il loro territorio e ad addestrare 4 battaglioni di profughi cristiani e yezidi. L’esercito di Baghdad è a malapena in grado di difendersi e non ha comandanti e truppe addestrate per combattere una guerra convenzionale anche perché gli istruttori statunitensi li hanno preparati fino al 2011 alla contro-insurrezione e da allora i reparto non si sono più addestrati con continuità. Infine, le milizie sciite che affiancano le truppe irachene sono più adatte alle rappresaglie che alla guerra vera.

Disponibilità a inviare aerei contro il Califfato è giunta sulla carta anche dalle monarchie del Golfo ma da un lato si tratta degli sponsor dei gruppi islamisti e dello stesso Stato Islamico e, dall’altro, le capacità belliche dei piloti degli emirati sono state ridicolizzate durante la guerra in Libia del 2011, tra velivoli che si schiantavano in atterraggio sfasciando i carrelli e altri che perdevano la rotta in volo. Per una ragione o per l’altra, Abu Bakr al-Baghdadi non sembra avere nulla da temere da un’eventuale presenza militare delle monarchie del Golfo.

Di fatto gli unici a “metterci la faccia” e a combattere a muso duro con le truppe del Califfo sono i militari siriani, che lottano contro i jihadisti da tre anni, e i Guardiani della Rivoluzione iraniani i cui battaglioni, questa estate, hanno respinto dai sobborghi di Baghdad le milizie del Califfato.

Strano a dirsi gli unici Paesi in grado di cancellare militarmente il Califfato non sono ben visti nella Coalizione a guida americana e Bashar Assad viene ancora considerato un nemico. Certo Washington sembra decisa a liberare i territori iracheni, ma a ben guardare la presenza del Califfato in territorio siriano, opposto al regime di Assad, non ha mai indotto la comunità internazionale a mobilitarsi.

Per conquistare il territorio siriano occupato dallo Stato Islamico, Washington e Riyadh hanno in programma di addestrare, in un anno, 5mila miliziani, ovviamente tutti “moderati”, che in Siria dovrebbero muovere guerra al Califfo invece che alle forze governative. Visti i precedenti chi può credere alla buona fede di un simile piano? E in ogni caso, sempre ammesso che una volta armati e addestrati da americani e sauditi non corrano anche loro ad arruolarsi nell’armata del Califfo, 5mila miliziani con armi e mezzi leggeri sarebbero comunque insufficienti a riprendere Raqqa e le regioni orientali siriane. Bastano pochi freddi conti numerici per rendersi conto che, senza gli eserciti siriano e iraniano, è impossibile sconfiggere il Califfato, ammesso e non concesso che questo sia il vero obiettivo dell’ambigua Washington e dei suoi infidi alleati arabi.

A proposito di ambiguità, ieri un bell’esempio l’hanno fornito il numero uno del Pentagono e il capo di stato maggiore delle forze armate statunitensi. Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Chuck Hagel, in un'audizione davanti al Senato ha confermato che non vi sarà nessun coordinamento con le forze di Damasco, precisando che le truppe americane non saranno impegnate in combattimento ma sosterranno quelle irachene e curde, perché spetta principalmente alle "forze locali combattere" la minaccia.

Sempre ieri il generale Martin Dempsey ha invece reso noto che forze terrestri americane potrebbero partecipare alla guerra. «Se vi fosse una minaccia diretta per gli Stati Uniti» o «se ritenessi necessario affiancare con i nostri soldati le truppe irachene per colpire specifici bersagli, andrei dal presidente per raccomandargli il ricorso anche a truppe da combattimento a terra», ha detto Dempsey in Senato.