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LEGATE ALL’ISIS

Terroriste ‘graziate’ perché donne. La denuncia dell’Onu

Un rapporto pubblicato dal Comitato antiterrorismo delle Nazioni Unite denuncia la scarsa cura con cui l’Ue gestisce la realtà delle terroriste partite per il Medio Oriente per unirsi all’Isis. “Le donne sono il gruppo con il più basso tasso di rimpatri” e vengono solitamente condannate “a pene più leggere rispetto agli uomini, non per circostanze attenuanti, ma per lo stereotipo che le vuole vittime”

Attualità 24_09_2020

Il Comitato antiterrorismo, organo sussidiario del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, istituito sulla scia degli attacchi terroristici dell’11 settembre, ha pubblicato in estate un rapporto: L'azione penale verso le donne associate all'Isis

L’indagine su 80 Stati - i cui cittadini si sono presumibilmente recati in Iraq e in Siria per unirsi al sedicente Stato islamico - ha prodotto un documento analitico, che disegna proprio l’evoluzione della gestione delle donne terroriste islamiche che sono tornate da zone di conflitto nei loro Paesi di origine. Lo studio ha denunciato l’urgente necessità di sviluppare risposte di giustizia penale più puntuali: l’Onu denuncia la scarsa cura con cui l’Ue gestisce il terrorismo islamico al femminile. “Le donne sono il gruppo con il più basso tasso di rimpatri, e si registra l’urgente necessità di migliorare le indagini, le azioni penali per il genere femminile, oltre che istituzionali”, si legge nel rapporto.

Il caso Shamima Begum è forse emblematico in tal senso. La “sposa dell’Isis”, che appena quindicenne, nel 2015, partì da Londra per giurare fedeltà al sedicente Stato islamico e unirsi alla battaglia in Siria, dopo essere stata reclutata dalla propaganda online, s’era vista negare il rientro in Gran Bretagna dal governo. A luglio la Corte d’Appello britannica ha rimescolato di nuovo le carte, cancellato le decisioni del governo per concedere alla terrorista dell’Isis - non si sa se ex - di tornare a Londra. Radicalizzazione, terrorismo islamico, tradimento verso il suo Paese l’hanno tenuta sulla stampa internazionale a lungo per essere, oggi, la conferma di quanto l’Onu ha messo nero su bianco: le donne islamiche che hanno abbracciato la causa del terrorismo ricevono un trattamento privilegiato in fatto di pene rispetto agli uomini. Il rapporto dell’Onu sottolinea proprio come «nell’Europa occidentale e nel Nord America, i “fantasmi” [dalla terra del jihad, ndr] tendono a essere condannati a pene più leggere rispetto agli uomini, non per circostanze attenuanti, ma per lo stereotipo che le vuole vittime». E se lo dice perfino l’Onu…

Tante terroriste dall’Europa non sono mai state rimpatriate, troppe sono ancora in libertà, diverse nessuno sa dove siano. La francese Hayat Boumedienne - moglie del terrorista Amedy Coulibaly - sarà processata in contumacia. Probabilmente è morta, ma nessuno lo sa con certezza: da cinque anni, la “donna più pericolosa di Francia” risulta imprendibile. E sono tantissime le jihadiste francesi andate a combattere in Siria con i loro mariti e che sono anche scappate dalle carceri. Tra quelle francesi è il 10% ad esser scappato dai vari fronti di guerra del terrorismo islamico in Medio Oriente e a non aver subito un processo. Per l’Onu il fatto che le donne-soldato dell’islam, molto probabilmente colpevoli di omicidi, siano a piede libero è a dir poco terribile, oltre che orribile, ed è la prova del fallimento occidentale della lotta al terrorismo, viziata anche dal pregiudizio di genere per numeri non certo insignificanti.

Dal 2017 le partenze delle donne per l’area controllata dall’Isis sono state sistematicamente perseguite con un ritardo di due anni rispetto agli uomini. Solo adesso il mandato di condanna per le donne ha iniziato a diventare sistematico. Ma a fronte di un ipotetico aumento delle pene, sorgerà un altro problema: il monitoraggio dei detenuti radicalizzati. 

Nelle carceri europee, e soprattutto in quelle francesi, impera la mancanza di aree e capacità di valutazione delle donne detenute per terrorismo islamico: i profili ideologizzati - per le donne come per gli uomini - sono un problema che nessuno ancora è riuscito ad affrontare. È auspicata la creazione, entro la fine del 2020, di un organo capace di valutare la radicalizzazione delle donne. Ma in Francia era già stato annunciato nel 2016.

Nel frattempo la stragrande maggioranza dei Paesi occidentali continua a non rimpatriare, e non processare, le donne che si sono unite all’Isis. Germania, Danimarca, Australia e Indonesia hanno deciso di non rimpatriare queste donne e di privarle della cittadinanza, il che le rende ancora più pericolose, a zonzo per il mondo.

Uno studio dell’International Centre for the Study of Radicalization (con sede a Londra) ha stimato che, a luglio 2019, solo 609 donne che avevano viaggiato per unirsi all’Isis erano tornate nei loro Paesi di origine. Diciottomila sono le terroriste islamiche che hanno continuato a permanere nei campi profughi, 2.000 quelle che hanno deciso di rinunziare da sé alla precedente cittadinanza. Il che vuol dire solo una cosa: resteranno tutte impunite. Niente viene fatto per assicurarle alla giustizia, ancor meno viene fatto per sostenere programmi utili alla reintegrazione nelle società d’origine: in un certo qual modo l’islamismo viene tutelato.

Quando alcune donne in Svezia e Finlandia sono tornate in patria senza passare per la giustizia, insieme ai loro figli, è emerso che avevano a disposizione denaro per pagare i trafficanti di esseri umani che le avrebbero fatte scappare, finendo in un altro girone: quello della violenta tratta al femminile. Tantissime, insieme agli uomini, restano in cellule dormienti in Turchia.

Nelle interviste raccolte dal Centro internazionale per lo studio dell’estremismo violento (ICSVE), i membri dell’Isis affermano che i funzionari dell’intelligence e i militari turchi li hanno aiutati negli anni precedenti quando avevano bisogno di attraversare il confine dalla Siria alla Turchia per vari motivi. Attraversare le aree controllate dai ribelli turchi, e poi in Turchia, sembra essere il modo in cui le donne finlandesi e svedesi, di cui sopra, sono fuggite dal campo e sono tornate a casa.

Queste donne non sono disilluse né vittime. La stragrande maggioranza di loro è ancora fortemente coinvolta: vengono addestrate ad essere cecchini, combattenti e kamikaze. Lavorano per essere spie e corrieri. E in tantissimi casi sono le loro pagine social a manifestare la profonda devozione all’Isis.

Persino l’Onu ha capito benissimo (e per questo ha partorito il suo rapporto) che l’Isis non è morto e neanche il sogno di costruire il suo califfato. E le donne che sfuggono alla legge - anzi, che vengono ignorate dalle leggi europee - sono parte della strategia.