Sudan, la guerra e lo sterminio che non fanno notizia
Silenzio mediatico sulla guerra del Sudan e sul terribile assedio della città di el Fasher. Eppure si tratta della più grave crisi umanitaria del mondo, con 150mila morti e 14 milioni di profughi.

Il Sudan è in guerra dall’aprile del 2023. A scatenarla sono stati due generali, Mohamed Hamdan Dagalo e Abdel Fattah al-Burhan, un tempo alleati, che si contendono il controllo del paese, decisi a combattere a oltranza, fino alla sconfitta totale dell’avversario e dei suoi alleati. Il primo ha ai suoi ordini le RSF, Forze di supporto rapido, una milizia paramilitare costituita da 100mila, forse 150mila combattenti. Il secondo, che è di fatto il capo dello stato, dispone dell’esercito nazionale, approssimativamente di pari potenza. La guerra sta causando la peggiore crisi umanitaria del mondo e degli ultimi decenni. Su 50 milioni di abitanti, si calcola che le vittime civili siano 150mila, i profughi 14 milioni, tre milioni dei quali rifugiati nei paesi vicini, e 26 milioni le persone che hanno estremo bisogno di aiuto, la maggior parte delle quali affette da malnutrizione acuta.
La regione più colpita, quella in cui la popolazione paga il prezzo più alto, è il Darfur, una delle nove provincie in cui il Sudan è diviso. Lì la guerra tra i due generali è resa più aspra da fattori tribali, gli stessi che furono all’origine della guerra iniziata nel 2003 e conclusasi nel 2020, con un bilancio di oltre 300mila civili uccisi e tre milioni di profughi. Allora, come adesso, il conflitto era tra tribù di origine africana e tribù di origine araba e fu uno scontro impari perché il governo sudanese armò, finanziò e fornì supporto tecnico e logistico alle tribù arabe e ai loro combattenti, i janjaweed (diavoli a cavallo) noti e temuti per la ferocia con cui furono autorizzati a infierire sulle popolazioni non arabe. L’allora presidente, Omar al-Bashir, per aver istigato tanta violenza fu denunciato alla Corte penale internazionale, accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
I janjaweed, dopo il 2020, sono confluiti nelle RSF. Di nuovo si accaniscono contro le popolazioni di origine africana che quindi sono scese in campo al fianco del generale al-Burhan. Il Darfur da mesi è in gran parte controllato dalle RSF. L’unico grande centro urbano in cui l’esercito governativo ancora resiste è el Fasher che le RSF assediano dal maggio del 2024. È in quella città che si consuma la tragedia umanitaria più grave di tutto il Sudan. Vi sono intrappolate circa 260mila persone, circa metà delle quali minorenni: tutte quelle che non sono riuscite a fuggire nei 17 mesi di assedio. Quante siano morte nel frattempo non è dato sapere, probabilmente non si saprà mai. Ma si sa di che cosa si muore: uccisi dai bombardamenti e a colpi di arma da fuoco, vittime di malattie e di fame. A el Fasher c’è gente ridotta a mangiare foglie, erba e alla fine persino la terra, sperando di ricavarne qualche nutrimento. C’è gente che muore per ferite e malattie non curate, di epidemie come quella di colera, per mesi, finché non si è esaurita dopo essersi portata via più di 2.500 persone.
Si muore così perché quasi tutti gli ospedali e gli ambulatori sono inagibili e comunque hanno esaurito da tempo le scorte dei medicinali e perché le RSF usano la fame come arma di guerra, non lasciano entrare rifornimenti, neanche di cibo e medicinali, e proibiscono l’accesso alle organizzazioni umanitarie. Attorno alla città hanno costruito dei muri per impedire che entrino aiuti e operatori umanitari e che gli abitanti, di fatto tenuti in ostaggio, ne escano.
Questa è la situazione che di giorno in giorno si aggrava in un crescendo di atroci crimini contro i civili. Per questo il 2 ottobre esponenti internazionali della Chiesa cattolica, tra cui figurano la Conferenza episcopale del Sudafrica e Pax Christi Usa, e con loro oltre 100 associazioni civili e umanitarie hanno pubblicato una lettera aperta con la quale chiedono con urgenza protezione per i civili e soprattutto che vengano aperti dei corridoi umanitari per consentire agli aiuti di raggiungere la popolazione e agli abitanti imprigionati in città di andarsene, se lo desiderano, senza correre il rischio di essere uccisi.
Intervistato dall’agenzia ACI Africa, Telley Sadia, delegato per il Sudan della Agenzia Cattolica per lo sviluppo d’oltremare, ha deplorato che quella di el Fasher e dell’intero Sudan sia una guerra trascurata dai mass media internazionali nonostante la sua gravità. Ha quindi chiesto che si dia spazio e voce al paese. Ma soprattutto – ha detto – occorrono interventi tempestivi e determinati e che non si limitino a parole di condanna. C’è bisogno «di una azione decisa della comunità internazionale per impedire l’incessante massacro dei civili intrappolati a el Fasher. Un piano di accesso umanitario deve essere sviluppato ed eseguito con urgenza in conformità con il diritto internazionale umanitario. Bisogna sollecitare accordi vincolanti tra le parti in conflitto per garantire il rispetto e la tutela dei civili».
Ma i contendenti non accoglieranno queste richieste. Una caratteristica del conflitto, che lo rende così cruento, è la volontà di entrambe le parti di colpire i civili che vivono nei territori controllati dall’avversario: vittime quindi non in quanto effetto collaterale della guerra, ma in quanto obiettivo deliberato. Circa 470mila abitanti di el Fasher sono riusciti a fuggire dalla città, soprattutto nei primi mesi dell’assedio. Si erano rifugiati in campi profughi allestiti per loro e per gli altri sfollati della regione: se non altro al sicuro, si credeva, anche se in condizioni di estrema fragilità a causa della malnutrizione acuta, delle pessime condizioni abitative e igieniche, dell’insufficiente assistenza sanitaria dovute alle restrizioni imposte ai soccorsi, spesso bloccati per giorni e settimane. Il campo più grande, Zamzam, ospitava più di 700mila sfollati quando lo scorso aprile è successo l’inimmaginabile. Le RSF lo hanno attaccato e, dopo averlo bombardato, se ne sono impadroniti uccidendo migliaia di persone. Centinaia di migliaia di sfollati, forse 400mila, si sono dati alla fuga e hanno cercato di mettersi al sicuro, molti percorrendo decine di chilometri ormai sprovvisti di tutto. Tanti sono morti per strada, di fame e sete. Il 13 aprile il campo era nelle mani delle RSF. Due giorni dopo Regno Unito, Unione Africana e Unione Europea avevano convocato una conferenza nel tentativo di avviare una mediazione tra le parti. I rappresentanti dei due generali non si erano neanche presentati. Lo stesso giorno il leader delle RSF, il generale Dagalo, aveva annunciato di aver costituito un governo alternativo a quello in carica. «Stiamo costruendo – aveva detto – l’unico futuro realistico per il Sudan, un governo di pace e unità, il vero volto del Sudan».
Ma è un volto che il Sudan, in guerra praticamente sempre dall’anno dell’indipendenza nel 1956, non ha mai avuto e che ancora per molto non avrà.