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verso il voto

Referendum, il quesito sulla cittadinanza è pretestuoso

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Il quinto quesito referendario vuole concedere la cittadinanza agli stranieri dopo appena 5 anni di residenza invece degli attuali 10. Un quesito del quale non si comprende l'urgenza e che svela un pregiudizio: perché a parità di diritti la cittadinanza italiana dovrebbe essere più prestigiosa, ad esempio, di quella marocchina?

Politica 05_06_2025

I cittadini di Stati che non fanno parte dell’Unione Europea immigrati in Italia possono chiedere la cittadinanza italiana se risiedono legalmente nel nostro paese almeno da dieci anni. Fanno eccezione alcune categorie che possono chiedere la cittadinanza dopo cinque anni: tra queste, i rifugiati, gli apolidi e chi presta servizio per cinque anni alle dipendenze dello Stato. È quanto prevede la legge del 1992 che uno dei cinque referendum dell’8-9 giugno propone di emendare riducendo a cinque gli anni di permanenza necessari.

L’emendamento è stato fortemente voluto da quanti – forze politiche e sociali – ritengono troppo ingiustamente lungo e complesso l’attuale iter per la naturalizzazione, più di quanto non lo sia in altri Stati dell’Unione Europea: ingiusto perché costringerebbe per troppo tempo gli stranieri in una sorta di limbo di incertezza e insicurezza del futuro. Idea diffusa è anche che sapersi cittadini italiani favorisca negli immigrati l’integrazione, o meglio il senso di appartenenza, di far parte di un tutto, utile a sua volta alla ridefinizione dell’identità personale, al superamento di eventuali barriere culturali e di pregiudizi, il tutto in funzione di una più salda coesione sociale e di una più serena, aconflittuale convivenza. Inoltre i promotori del referendum reputano ingiusto che, esclusi dal voto, gli stranieri non possano partecipare alla vita politica, quindi alle scelte del paese in cui vivono, che si riflettono anche su di loro.  

Per contro la ragione prima di chi non approva che vengano abbreviati i tempi per la naturalizzazione è che la cittadinanza italiana deve venire dopo l’integrazione e l’assimilazione, non prima; e che per diventare cittadino italiano un immigrato deve dimostrare di aver compiuto un percorso personale che lo ha portato a scegliere di appartenere alla società italiana, a volerne condividere storia, radici, cultura e a desiderare di far parte del suo futuro. In effetti è questo, non altro, non considerazioni opportunistiche di vantaggi derivanti, che dovrebbe indurre una persona che arriva da lontano a chiedere la cittadinanza del paese che lo ospita e nel quale si propone di trascorrere il resto della vita.

È per questo che alle condizioni necessarie per ottenerla in Italia è stato aggiunta nel 2018 la conoscenza almeno di livello B1 della lingua italiana che indica la capacità di comprendere «messaggi chiari e standard su argomenti famigliari e comuni come quelli relativi al lavoro, allo studio o al tempo libero». Meglio sarebbe in effetti se fosse prevista anche, come condizione, aver seguito un corso di educazione alla cittadinanza, di educazione civica, per conoscere la costituzione, le istituzioni, la struttura dello Stato.

Le altre condizioni per diventare cittadini italiani sostanzialmente sono disporre di un reddito sufficiente al sostentamento e non avere precedenti penali. Sono condizioni necessarie, del tutto ragionevoli. Nell’insieme quelli adottati non sembrano criteri così complessi e difatti l’Italia è uno dei paesi Ue che ogni anno rilascia più cittadinanze sia in termini relativi che in valori assoluti. Nel 2023, ad esempio, la Francia, in cui vivono 8,9 milioni di stranieri, ha concesso 97.288 naturalizzazioni; e la Germania, con 13,9 milioni di stranieri, ne ha concesse 200.000. In Italia gli immigrati sono 5,3 milioni. Nel 2023 ne sono stati naturalizzati 214.000.

Quelli che voteranno “sì” al referendum sono gli stessi che si battono per far avere la cittadinanza italiana ai minorenni nati nel nostro paese da genitori stranieri. Come è noto, in Italia vige lo ius sanguinis: è italiano chi nasce da genitori italiani. Vorrebbero che invece fosse adottato lo ius soli, come ad esempio finora negli Stati Uniti dove la cittadinanza è riconosciuta ai bambini che nascono in territorio nazionale.

Non essendo riusciti a ottenerlo, nel 2015 hanno proposto lo “ius culturae, vale a dire il conferimento della cittadinanza italiana a minori figli di stranieri, ma nati in Italia o arrivati da piccoli (entro il 12° anno di età) che per almeno cinque anni abbiano frequentato regolarmente uno o più cicli di studi o percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali conclusi con la promozione. Avendo fallito hanno riproposto la legge nel 2022 chiamandola “ius scholae”. In Italia i minori figli di stranieri se nati in Italia o residenti nel nostro paese regolarmente hanno facoltà di chiedere la naturalizzazione al compimento dei 18anni, ma per i sostenitori dello ius soli non basta, anche se i minori stranieri godono degli stessi diritti, delle stesse libertà e usufruiscono degli stessi servizi dei bambini italiani, senza discriminazioni e limitazioni.

«Oltre un milione di giovani sono ancora senza cittadinanza» protestavano politici e associazioni nel 2022, «un milione di ragazzi fuori dal limbo» se sarà approvato lo ius scholae, sostenevano. Adesso, esortando a votare “sì” al referendum, parlano di “dignità negata”. È difficile concordare sull’urgenza di una legge che riconosca ai minori stranieri un diritto alla cittadinanza italiana acquisibile frequentando dei corsi scolastici, dal momento che questo non cambierebbe niente nella loro vita. È altrettanto difficile capire l’urgenza di attribuire la cittadinanza italiana a degli adulti da poco residenti in Italia, ai quali in effetti non si fa torto né danno disponendo che diano prova di sé per dieci anni prima di accettarli come concittadini (salvo l’opportunità, certo importante anche se esercitata da sempre meno cittadini, di votare ed eleggere i propri rappresentanti).

È difficile a meno che queste rivendicazioni non tradiscano un pregiudizio, anche inconsapevole: che cioè la nazionalità italiana sia più ambita, desiderabile, prestigiosa, che potersi presentare al mondo come italiani sia meglio che farlo da marocchini, pakistani o nigeriani. Perché gli stranieri, adulti e minori, una cittadinanza ce l’hanno, la loro. Si accusa l’Italia di negare dignità agli immigrati. Da quando è “dignità negata” continuare a essere cittadini di un paese che non sia l'Italia?