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ELEZIONI

Pechino perde la fiducia degli "altri" cinesi

Taiwan ha votato la sua prima donna presidente, Tsai Ing-wen, affiancata da un vice cattolico, Chen Chien-jen. Sono espressione del Partito Democratico per il Progresso, che mira alla piena indipendenza dalla Cina. A Taiwan temono di essere fagocitati dal colosso comunista, come sta avvenendo già a Hong Kong. 

Esteri 17_01_2016
Tsai Ing-wen  e il vicepresidente Chen Chien-jen

La prima donna presidente e un vicepresidente cattolico. E’ questo il “ticket” che ha vinto le elezioni a Taiwan, ieri. Lei, Tsai Ing-wen, è la leader del Partito Democratico per il Progresso, formazione di sinistra che vuole l’indipendenza di Taiwan dalla Cina continentale. Lui, Chen Chien-jen, professore medico epidemiologo, è un intellettuale che spera di dar l’esempio di libertà taiwanese anche al resto della Cina. Ma Pechino mal digerisce questa vittoria e promette letteralmente una “bufera” nelle relazioni con Taipei.

Si tratta dell’evento elettorale più importante dell’Asia, in questo periodo, in una zona molto sensibile che è sempre in bilico fra pace e guerra. L’ultimo scontro militare che ha visto contrapporti l’isola Taiwan alla Cina continentale (divise fra loro da uno stretto braccio di mare) risale ad appena 20 anni fa. Pechino non ha mai accettato l’indipendenza di Taiwan. Considera l’isola come una “provincia ribelle”, ultimo residuo di quel regime nazionalista che Mao Zedong sconfisse nel 1949. Dall’altra parte dello stretto di Taiwan, invece, Taipei governa su un’isola già di fatto indipendente da quasi 70 anni, con una sua democrazia già ben consolidata. La politica di Taipei è divisa dalle sue due anime principali: il Kuomintang, il partito che fu di Chang Kai-shek, il dittatore nazionalista sconfitto da Mao nel ’49, sogna ancora una Cina unita sotto di sé. Non potendola conquistare manu militari per l’evidente inferiorità nei rapporti di forza, spera comunque di influenzare il resto della Cina, verso una sua liberalizzazione. Per questo i governi del Kuomintang puntano ad una graduale apertura degli scambi, fino a costituire un mercato unico, capace di trasformare il continente. Alla sua sinistra si oppone il Partito Democratico per il Progresso, che, al contrario, mira a preservare la democrazia taiwanese difendendola dalla Cina, temendo di essere fagocitata da Pechino.

Il professor Chen Chien-jen, prima di essere eletto vicepresidente, aveva dichiarato all’agenzia missionaria Asia News, a proposito dei rapporti con la Cina Popolare, di mirare a: “trovare un buon dialogo, il rispetto reciproco, la comprensione reciproca, e speriamo con il resto dell’umanità, compreso il continente, di condividere la gioia della libertà e della democrazia. Con l’esempio della democrazia e della libertà di Taiwan, possiamo dirigerci alle persone, eleggere i nostri dirigenti, perché l’opinione della gente rappresenta il principio basilare, questo è ciò che vogliamo nel mondo cinese, e speriamo che questo modello di democrazia possa svilupparsi”. Inoltre: “oltre al modello di democrazia, anche la libertà è importante: la libertà religiosa, la libertà di associazione, la libertà di parola, questi sono valori universali. Quindi ci auguriamo che, attraverso i nostri sforzi, siano sempre più affermati i valori universali a Taiwan: la libertà, la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani, possano svilupparsi sempre di più, e si possano poi condividere con tutto il mondo cinese”.

La nuova presidente, Tsai Ing-wen, ha cambiato alcune posizioni definite all’epoca intransigenti. Al momento rimane nel campo dell’indipendentismo puro da Pechino, ma ha promesso di mantenere “relazioni stabili e pacifiche” con la Cina continentale. Nel suo discorso della vittoria ha dichiarato che intende preservare lo “status quo” nelle relazioni con l’altra sponda dello Stretto. Dunque, né indipendenza dichiarata, né politica della Cina Unica. Ma dalla parte di Pechino la reazione è durissima, quasi una dichiarazione di guerra: “lo sviluppo delle relazioni pacifiche fra le due sponde dello stretto, sarà disturbato da onde burrascose e rischierà di capottarsi”. In senso figurato, i comunisti cinesi promettono tempeste in arrivo.

E’ tuttavia prematuro parlare di rottura o crisi internazionale, perché l’interscambio fra Cina e Taiwan è continuamente aumentato, fino a creare un rapporto di interdipendenza economica. Negli ultimi due anni, circa 300mila cinesi continentali hanno visitato Taiwan mensilmente, ogni settimana sono stati effettuati 900 voli passeggeri. Quanto al commercio, la Cina è il settimo partner commerciale di Taiwan e il sesto fornitore di tutte le importazioni. Tuttavia il modello finora governato e voluto da Ma Ying-jeou, l’ex presidente del Kuomintang, ha creato più paura che fiducia nei cittadini. Proprio l’aumento dell’interdipendenza economica con la Cina ha fatto temere una pacifica invasione e la perdita di un’indipendenza che, di fatto, sopravvive dal 1949.

C’è un altro fattore che ha giocato a favore degli indipendentisti: l’esempio vicinissimo di Hong Kong. La città-stato, da 18 anni, vive per davvero la politica della “Cina Unica” (che in quel caso si chiama “principio del Uno Stato e Due Sistemi”). E non ha funzionato. Nel senso che ha perso definitivamente la sua indipendenza e con essa anche il suo sistema. Dopo il fallimento della contestazione per la democrazia, l’anno scorso, a Hong Kong le autorità cinesi sono sempre più opprimenti. Esercitano un controllo rigido sulla stampa, sia con metodi legali che illegali. L’ultimo esempio, in questo senso, è il rapimento di Lee Bo, editore che pubblicava libri vietati nel resto della Cina. Alcuni testimoni riferiscono di averlo visto caricato su un furgone, da parte di uomini in borghese. Da allora non si sa più nulla di lui, se non una telefonata alla moglie in cui le diceva (con un tono tutt’altro che naturale, a quanto pare) di essere in Cina per collaborare a un’indagine della polizia. Negli ultimi tre mesi, oltre a lui, sono spariti altri quattro editori di Hong Kong, tutti accusati dalla Cina di pubblicare testi di dissidenti. E nella città-Stato, i libri proibiti sono ormai scomparsi dagli scaffali delle librerie. Come se si fosse già direttamente sotto il controllo del regime comunista di Pechino. La gente si è sempre sentita sicura a Hong Kong. Ora non lo è più.

Ad Hong Kong è ancora garantita piena libertà di religione, ma anche la Chiesa adesso teme di essere fagocitata dalla Cina, dove i vescovi, organizzati dall’Associazione Patriottica, sono nominati dallo Stato. E’ questo fondato timore che ha spinto il cardinal Joseph Zen, di Hong Kong, a pubblicare una dura requisitoria contro la diplomazia vaticana, troppo aperturista nei confronti di Pechino. Una lettera che si concludeva con parole molto esplicite: “Il giorno che si firmerà quell’accordo con la Cina ci sarà pace e giubilo, ma non aspettate che io partecipi alle celebrazioni dell’inizio di questa nuova Chiesa. Io sparirò, inizierò una vita monastica per pregare e fare penitenza. Chiederò scusa a papa Benedetto per non essere riuscito a fare quello che egli sperava. Chiederò a papa Francesco di perdonare questo vecchio cardinale di periferia per averlo disturbato con tante lettere inopportune. Bambini innocenti sono stati uccisi, l’angelo ha detto a Giuseppe di portare il Bambino e Maria in salvo fuggendo. Ma oggi i nostri diplomatici forse consiglieranno a Giuseppe di andare a tentare un dialogo con Erode?”

Anche Taiwan teme di essere costretta a dialogare con Erode, incarnato nel Partito Cinese. Per questo la maggioranza della sua popolazione ha votato un partito che promette l’indipendenza.