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STATE OF THE UNION

Obama cita anche il Papa, ma non convince

Nel suo ultimo discorso sullo Stato dell'Unione, Barack Obama vanta una serie di successi internazionali che non sono corroborati dai fatti. Cita Papa Francesco, ma solo per dare addosso a Donald Trump (che non nomina). Dà la priorità alla lotta al riscaldamento globale. E intanto, nel Golfo Persico, l'Iran rapiva 10 marinai americani.

Esteri 14_01_2016
Barack Obama

“Gli Stati Uniti d’America sono la nazione più potente del mondo. Punto”, dice il presidente Barack Obama in uno dei passaggi chiave del suo ultimo discorso dello Stato dell’Unione. “Nessuna nazione ci attacca direttamente, perché sa che quella sarebbe la strada della sua rovina”. E proprio poche ore prima che Obama pronunciasse queste parole di fronte al Congresso, l’Iran compiva un sequestro lampo di 10 uomini della Marina statunitense, nelle acque del Golfo, umiliandoli, fotografandoli con le mani dietro la nuca e rilasciandoli la mattina dopo. Mai tempismo fu più azzeccato e significativo di questa smentita (dal vivo) fornita dall’Iran. Proprio da quell’Iran con cui l’amministrazione Obama ha appena concluso l’accordo sul programma nucleare, vantato come una delle più grandi vittorie diplomatiche dal presidente.

Secondo Obama, che con questo discorso dello Stato dell’Unione compie il suo ottavo e ultimo anno alla Casa Bianca, ha un gran daffare a smentire le voci insistenti sul declino del potere americano. Russia e Cina incalzano, l’Isis è più in espansione dell’Al Qaeda dei tempi di Bin Laden, ma Obama, con tono da professore in cattedra e una certa ironia da avvocato, li irride: “Ora, essendo uno che inizia la giornata con un briefing dell’intelligence, so che questi sono tempi pericolosi. Ma non tanto per qualche superpotenza emergente, e sicuramente non per un declino della forza americana. Nel mondo di oggi, siamo minacciati più da Stati fallimentari che non da imperi del male”. Come spiegare, però, che nei dossier di Siria e Ucraina prevalgano situazioni contrarie agli interessi degli Usa? Come spiegare che l’Isis, che secondo Obama è colpito ininterrottamente dai raid aerei della coalizione (“I loro leader, campi di addestramento, armi e risorse sono sistematicamente distrutti”) sia ancora vivo, vegeto, capace di attrarre volontari jihadisti da tutto il mondo e sempre più propenso a portare il terrorismo nel cuore dell’Europa? A proposito: nel discorso di Barack Obama manca qualunque riferimento agli attentati di Parigi. E nemmeno a quello di San Bernardino, che pure è stato compiuto in territorio americano. Della guerra in Ucraina non si parla proprio. Così come il presidente spende veramente poche parole sulla situazione in Iraq, abbandonato al suo destino nel 2011 e ora frammentato in tre Stati, di fatto indipendenti e nessuno dei quali amico dell’America.

La retorica di Obama porta la sua audience a una scelta fra due alternative impercorribili alla sua linea: l’isolamento dal mondo o il commissariamento degli Stati falliti. A entrambe, Obama contrappone la sua ricetta, il “leading from behind”, la costruzione di coalizione di nazioni locali, a guida americana, per affrontare i problemi di quella regione. Se l’isolamento dal mondo non è una politica percorribile (gli Usa abbandonarono definitivamente l’isolazionismo nel 1941) e l’interventismo porta a costi intollerabili (“come le lezioni in Vietnam e Iraq dovrebbero averci insegnato”, dice Obama), si può dire che la strategia del “leading from behind” abbia funzionato? A giudicare dai risultati ottenuti in Libia, tuttora sprofondata nel caos, e nel Medio Oriente, dove il Califfato è germogliato sulle rovine di Iraq e Siria, si direbbe proprio di no. E potrebbe andare ancora peggio, perché anche nello Yemen (altro “successo” della diplomazia americana) si continua a combattere una guerra per procura fra Arabia Saudita e Iran. Come minimo, nella formazione delle coalizioni da “guidare da dietro” c’è stato qualche malinteso nella scelta degli alleati. Altrimenti non si spiegherebbero risultati così miseri. Quanto alla guerra all’Isis, che Obama definisce come l’impegno prioritario della politica di difesa, è ancora difficile spiegare come mai in tutto gli americani abbiano sganciato sugli jihadisti 22mila bombe, in un anno e tre mesi di campagna, quando in soli 30 giorni di guerra in Iraq, nel 2003, ne sganciarono ben 29mila. E’ tutto qui l’impegno militare contro uno Stato totalitario nuovo, che non è neppure dotato di un sistema di difesa aerea moderno?

Obama vanta anche la distensione con Cuba, con la quale il presidente ha voluto il ripristino delle relazioni diplomatiche. Pone ancora il pubblico di fronte un’alternativa impercorribile: “Cinquant’anni di isolamento di Cuba non hanno promosso la democrazia e ci hanno fatto arretrare in America Latina. Ecco perché abbiamo ripristinato le relazioni diplomatiche, aperto le porte al turismo e al commercio, mettendoci nelle condizioni di migliorare la vita dei cubani”. Che invece vivono male quanto prima, forse anche più di prima, considerando che il numero di arresti di dissidenti è aumentato di mese in mese dall’estate scorsa in poi. Dell’altro grande sforzo mediatore dell’anno trascorso, quello fra Israele e Palestina, il presidente non parla: come nel caso dell’Ucraina, preferisce rimuovere. Parla dell’Iran, invece. E anche qui pone l’audience di fronte ad una linea politica che a suo dire era senza alternative: “… Ecco perché abbiamo costruito una coalizione globale, per implementare sanzioni economiche e una diplomazia coerente, per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari. Mentre noi parliamo, l’Iran ha annullato il suo programma nucleare, spedito all’estero la sua riserva di uranio e il mondo si è risparmiato un’altra guerra”. Ma proprio poche ore prima l’Iran catturava i marinai della sua Marina militare, quale gesto di sfida, come abbiamo visto. E, quanto ai rischi di conflitto, questi sono aumentati e non diminuiti, a causa della rinnovata tensione fra Teheran e Riad, l’una capofila dell’islam sciita e l’altra dell’islam sunnita.

Sulla natura religiosa del nuovo conflitto, con un islam jihadista sempre più aggressivo contro l’Occidente su tutti i fronti, Obama sceglie ancora la via del dialogo multiculturale. Fa sue le parole di Papa Francesco “Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore per prendere il loro posto”, ma solo per dare una tirata d’orecchi elettorale al candidato repubblicano (senza nominarlo, ma facendolo capire a chiare lettere) Donald Trump: “quando i politici insultano i musulmani questo non ci rende più sicuri. È solamente sbagliato. Ci sminuisce agli occhi del mondo e rende più difficile raggiungere i nostri obiettivi. E tradisce quello che siamo come Paese”.

La priorità dell’amministrazione, però, sembra essere un’altra: il cambiamento climatico. Che compare per ben tre volte nel suo discorso. Quanto allo sforzo diplomatico, Obama vanta: “… Quando abbiamo guidato quasi 200 nazioni verso il più ambizioso accordo della storia (il Cop21 a Parigi, ndr) per combattere il cambiamento climatico, per aiutare i paesi più vulnerabili e proteggere i nostri figli”. Del Cop21 e dei suoi risultati, abbiamo già ampiamente parlato su queste pagine. Le parole di Obama permettono di comprendere, però, la sua scala di priorità. Il terrorismo, la guerra in Ucraina, il fallimento degli Stati mediorientali, l’Iran nucleare e Cuba sono, magari, delle grandi seccature. Ma nulla in confronto alla vera minaccia ai “nostri figli”, che è il presunto riscaldamento globale. Una teoria su cui concorda “la quasi unanimità” dei climatologi, ma che è smentita da almeno un ultimo quindicennio in cui la temperatura non cresce.