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CONTINENTE NERO

Nigeria, il linciaggio di una studentessa "blasfema"

Una studentessa, Deborah Samuel, è stata picchiata a morte in Nigeria da un gruppo di suoi compagni di scuola musulmani che l’accusavano di aver pubblicato delle affermazioni blasfeme sulla chat usata dagli allievi dell’istituto. La polizia ha provato a salvarla, ma invano. Vita dura per i cristiani negli stati nigeriani a maggioranza islamica.

Libertà religiosa 14_05_2022
La festa di Eid el Fitr in Nigeria

La mattina del 12 maggio una studentessa cristiana, Deborah Samuel, è stata picchiata a morte in Nigeria da un gruppo di suoi compagni di scuola musulmani che l’accusavano di aver pubblicato delle affermazioni blasfeme sulla chat usata dagli allievi dell’istituto. La ragazzina frequentava lo Shehu Shagari College of Education, una scuola secondaria che si trova nello stato Sokoto, uno dei 12 stati settentrionali a maggioranza islamica del paese (mentre la metà meridionale è in prevalenza di fede cristiana).  

Le prime ricostruzioni fanno risalire l’origine della tragedia a un post sull’islam diffuso da un ragazzo su WhatsApp al quale Deborah sembra abbia risposto pubblicando un audio contenente commenti offensivi sul Profeta Maometto, commenti che hanno scatenato la furia omicida. Il portavoce della polizia locale, Sanusi Abubakar, in un comunicato ha spiegato che “gli studenti hanno prelevato a forza la vittima che le autorità scolastiche avevano messo al sicuro in una stanza, l’hanno uccisa e hanno dato fuoco all’edificio”. Uno studente che ha assistito ai fatti, e che ha chiesto l’anonimato, ha riferito alla Bbc che gli agenti di sicurezza della scuola e la polizia hanno tentato di salvare Deborah, ma sono stati sopraffatti dagli studenti: “la polizia ha lanciato dei lacrimogeni contro gli studenti, poi ha incominciato a sparare dei colpi in aria per disperderli, ma non è servito. Gli agenti hanno rinunciato dopo che gli studenti hanno incominciato a lanciare contro di loro pietre e bastoni. Allora gli studenti hanno colpito a morte la studentessa con pietre e bastoni e hanno dato fuoco al suo cadavere”. Non contenti, hanno incominciato a distruggere macchine e altre proprietà prima che le forze dell’ordine riuscissero a riportare la calma. Le autorità scolastiche hanno ordinato a tutti gli studenti di tornare immediatamente a casa e hanno chiuso l’istituto a tempo indeterminato.

Sono già stati arrestati due ragazzi sospettati di aver partecipato all’aggressione, ma l’indagine è appena avviata e si attendono sviluppi. Intanto i maggiori leader religiosi e politici del paese sono intervenuti per condannare l’accaduto e per fare appello alla calma. Il più importante leader religioso islamico del paese, Sa’ad Abubakar, sultano di Sokoto, ha definito ingiustificata la violenza e ha esortato le autorità a trovare i colpevoli e portarli davanti alla giustizia. Il governatore dello stato di Sokoto, Aminu Waziri Tambuwal, si è rivolto ai fedeli delle due religioni chiedendo che continuino a vivere in pace.

Il vescovo della Chiesa cattolica romana, monsignor Matthew Kukah, ha chiesto anch’egli giustizia, dicendo però che quanto accaduto va considerato come un atto criminale, non religioso. È intervenuta anche  Amnesty International che ha sollecitato provvedimenti che “mettano fine all’impunità che produce un aumento della violenza di massa”. Proprio queste dichiarazioni, che intendono adombrare il fattore religioso come elemento scatenante, nonostante l’evidenza, fa capire quanto sia delicata, critica la situazione dei cristiani che vivono negli stati del nord, anche dove non incombe su di loro la minaccia del jihad. All’inizio del secolo questi stati, violando la costituzione, hanno adottato la shari’a, la legge coranica. La minoranza cristiana da allora subisce discriminazioni, talvolta abusi, e l’imposizione di rispettare molte delle regole islamiche di comportamento. “Vivere in pace” vuol dire, per i cristiani, accettare sostanzialmente di essere cittadini di seconda categoria, emarginati, meno tutelati. Deborah non se ne era ancora resa del tutto conto e ha pagato con la vita.  

In alcuni stati neanche questo basta. Boko Haram, il gruppo jihadista legato ad al Qaeda attivo nel nord est del paese dal 2002, lotta per imporre ai musulmani il rispetto dell’Islam nella sua forma più rigorosa e per liberare il nord del paese dalla presenza dei cristiani. È responsabile di centinaia di attentati dinamitardi suicidi in mercati, stazioni di autobus, chiese e moschee, di sequestri di persona, il più clamoroso quello delle 276 studentesse di Chibok nel 2014, di innumerevoli attacchi a villaggi e piccoli centri razziati e interamente dati alle fiamme dopo averne sterminato gli abitanti. Dal 2016 il gruppo, indebolito da un intervento militare regionale, ha un raggio d’azione molto più limitato. Inoltre nello stesso periodo una parte dei militanti hanno scelto l’affiliazione all’Isis e formato un nuovo gruppo, l’Iswap (Islamic State in West Africa Province), attivo nella regione del lago Ciad. Proprio in questi giorni l’Iswap, che di recente ha subito pesanti perdite in seguito a una offensiva anch’essa condotta con successo da una forza militare regionale, ha pubblicato su un’agenzia di stampa collegata all’Isis un video che riprende l’uccisione di 20 cristiani. Le immagini mostrano i prigionieri in abiti civili, divisi in tre gruppi. Parlando in lingua Hausa, uno dei jihadisti, tutti mascherati e armati di coltello, spiega che l’esecuzione ha voluto vendicare l’uccisione di alcuni leader dell’Isis, avvenuta in Medio Oriente all’inizio del 2022.