Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Venerdì Santo a cura di Ermes Dovico
SUICIDIO ASSISTITO/4

L’inganno sui malati terminali e la burocrazia della morte

I fautori di eutanasia e suicidio assistito hanno sempre presentato casi in condizioni disperate, ma l’obiettivo - com’è evidente nel Ddl Bazoli - è quello di includere tantissime persone ben lontane dalla malattia terminale. La maggior parte degli anziani si trova nella condizione richiesta dal Ddl. E i protocolli e le procedure non danno alcuna garanzia.

Vita e bioetica 24_03_2022

Proseguiamo con l’analisi (leggi QUI, QUI e QUI le prime tre puntate), da parte del magistrato Giacomo Rocchi, del testo unificato Bazoli-Provenza sul suicidio assistito. Nel seguente articolo si esamina il progetto di legge come approvato dall’Aula della Camera (che ha modificato il testo uscito dalle Commissioni II e XII di Montecitorio) e ora all’esame del Senato.

***

I PAZIENTI IN STATO TERMINALE: UNO SPECCHIETTO PER LE ALLODOLE?

In definitiva, la descrizione delle condizioni in cui deve trovarsi la persona che chiederà di essere aiutata a morire non limita affatto i casi in cui ciò sarà possibile. Questo può stupire: non ci hanno sempre presentato casi di persone in condizioni disperate? Lo hanno fatto per convincerci che era crudele negare loro il diritto a morire, ma l’obiettivo era di estendere questa possibilità a tante persone in una situazione ben diversa.

Il progetto di legge, però, considera anche una diversa condizione: quella della persona “affetta da una patologia (…) irreversibile e con prognosi infausta”. Sarebbero, quindi, i malati terminali, quelli che si avvicinano inevitabilmente alla morte in conseguenza di una malattia inguaribile; i destinatari della terapia del dolore e delle cure palliative, coloro nei cui confronti vige il divieto di accanimento terapeutico nella fase finale della vita. L’esperienza degli hospice, per un accompagnamento ad una morte dignitosa, è nata per loro.

Il progetto di legge entra “a piedi uniti” in questa situazione difficile, delicata, fatta di rapporti umani e professionali, dicendo brutalmente al malato: ti puoi far ammazzare anche subito! Non è necessario che tu faccia quel percorso faticoso in cui saresti aiutato e accompagnato: visto che morirai, perché non anticipare?

Si noti: la possibilità di essere aiutati nel suicidio non è prevista solo nel caso di prognosi infausta a breve termine o di imminenza della morte: è sufficiente che la patologia sia irreversibile e che la prognosi sia infausta, anche se la morte può essere lontana. Per questo progetto, la scelta della morte anticipata è sempre la migliore!

E allora che senso ha il coinvolgimento del paziente in un percorso di cure palliative, preteso dall’art. 3 (e di cui deve fare menzione il medico nel rapporto alla Commissione per la valutazione clinica in base all’art. 5)? Il medico dirà al paziente: “Lei ha una malattia inguaribile che la porterà alla morte e che le produce sofferenza; se vuole, possiamo attivare le cure palliative e la terapia del dolore per cercare di ridurre queste sofferenze; se preferisce, invece, possiamo finirla qui”; oppure potrà rappresentargli la possibilità di interrompere le cure palliative già iniziate. Quindi, quella di farsi aiutare a morire è un’alternativa che verrà proposta al paziente: basta dolore, basta angoscia, una morte “dolce”; è sufficiente rifiutare le cure palliative o decidere di interromperle.

Lo Stato finge di voler promuovere le cure palliative (l’art. 10 del progetto prevede che il ministro della Salute implementi la rete di cure palliative, così da garantire una copertura efficace e omogenea di tutto il territorio nazionale), ma in realtà promuove la soluzione più semplice e meno costosa. Del resto - come prevede l’art. 9 del progetto - dall’attuazione della legge non dovranno derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica…

LA BUROCRAZIA DELLA MORTE

L’art. 10 del progetto di legge contiene un passaggio importante: il ministro della Salute dovrà “definire i protocolli e le modalità per la prescrizione, la preparazione, il coordinamento e la sorveglianza della procedura di morte volontaria medicalmente assistita”.

Protocolli e procedure: tutto deve essere burocraticamente a posto! L’illusione che le procedure, i passaggi burocratici, i visti, i timbri, i pareri garantiscano davvero i risultati che la legge vuole raggiungere ce la portiamo dietro dalla legislazione degli anni Settanta: come è noto, esiste una procedura per l’aborto volontario che dovrebbe prospettare alla donna “le possibili soluzioni dei problemi” derivanti dalla gravidanza e che dovrebbe “aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza” e “promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna”; ma è pacifico che, in realtà, l’aborto è assolutamente libero e quella procedura è solo fumo per nasconderlo; quanto, invece, ai “paletti” procedurali che dovrebbero limitare l’accesso alla fecondazione artificiale, la loro fragilità è nota.

Eppure, la Corte Costituzionale finge di credere all’efficacia delle procedure (o, peggio ancora, ci crede davvero!) e, per rassicurarci che la legalizzazione dell’aiuto al suicidio non produrrà vuoti di tutela per le persone vulnerabili, che potrebbero essere spinte da altri a chiedere di morire, richiama proprio le indicazioni procedurali contenute nelle sentenze in tema di aborto e fecondazione artificiale!

Ecco la procedura stabilita dal progetto di legge: la richiesta di morte volontaria medicalmente assistita viene fatta con atto scritto con firma autenticata indirizzato al medico; segue un colloquio tra medico e richiedente (art. 4) e un “rapporto dettagliato e documentato” che il medico deve trasmettere “senza ritardo” al Comitato di valutazione clinica (art. 5); nel rapporto si deve precisare (potrebbe andare bene anche un foglio precompilato con le crocette): a) se la persona è stata adeguatamente informata della propria condizione clinica e della prognosi; b) se è stata adeguatamente informata dei trattamenti sanitari ancora attuabili e di tutte le possibili alternative terapeutiche; c) se è a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative; d) se è già in carico a tale rete di assistenza o se ha esplicitamente rifiutato tale percorso assistenziale.

Segue un parere motivato del Comitato di valutazione clinica, che deve essere espresso entro trenta giorni (evidentemente c’è fretta); per redigere il parere il Comitato può convocare il medico e deve sentire il paziente, anche per via telematica: ma il colloquio è diretto ad accertare soltanto “che la richiesta di morte medicalmente assistita sia stata informata, consapevole e libera”.

Se il parere è favorevole l’intero incartamento viene trasmesso alla direzione sanitaria dell’A.S.L. o dell’azienda ospedaliera, il cui compito è stabilire come dovrà essere effettuata l’operazione. Al momento del decesso dovrà essere presente un medico che dovrà accertare la persistenza della volontà di morte volontaria.

Che garanzie dà questa procedura? Se la persona si trova in una condizione clinica irreversibile e prova una sofferenza per lui intollerabile, tanto da desiderare la morte, in che modo il colloquio con il medico la distoglierà dal suo obiettivo? Le cure palliative (lo dice la Legge 38 che le ha regolate) sono finalizzate ai pazienti che hanno una patologia caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta che non risponde più a trattamenti specifici: non riguardano, invece, coloro che sentono come insopportabile la propria condizione irreversibile. A loro cosa potrà dire il medico, quale “alternativa” potrà proporre? E il Comitato di valutazione clinica, che renderà il parere ben sapendo che il richiedente potrebbe comunque ottenere l’autorizzazione al suicidio assistito dal giudice, cosa potrà dire se non che la persona è “consapevole” (cioè sa che morirà), “informata” e “libera”?

GLI ANZIANI

Proviamo ad applicare questa procedura ad un anziano che si trova in una RSA o in una casa di riposo. Sono tanti, lo sappiamo, e molti di loro hanno la pessima tendenza a non morire…

La maggior parte degli anziani si trova sicuramente nella condizione richiesta dalla legge: è affetta da qualche patologia cronica che la fa soffrire e ha qualche “trattamento di sostegno vitale” da cui dipende. Spesso gli anziani sono soli, nel senso che non hanno più familiari o amici che li vanno a trovare, sono “reclusi” in quella struttura. L’anziano si lamenta: “non ce la faccio più, sono stanco, vorrei morire!”. Ecco che, improvvisamente, potrebbe mettersi in moto la “procedura”: un foglio fatto firmare, un colloquio con il medico, l’inevitabile parere positivo della Commissione di valutazione clinica. Il medico che sarà presente al decesso potrebbe essere lo stesso che ha raccolto la dichiarazione e che ha redatto il rapporto.

Come sarà, in questo caso, la “stanza della morte”? Qualche anno fa ha suscitato scalpore la notizia che, in Olanda, stava per essere messa in commercio una “pillola letale” destinata agli anziani ultrasettantenni che vogliono morire perché stanchi di vivere. Mi chiedo se, in una Rsa, la “stanza della morte” sarà banalmente una camera con una sedia e un tavolo su cui si troveranno un bicchiere d’acqua e una di queste pillole. Se l’anziano che ha firmato la richiesta la ingoierà, nessun dubbio potrà essere sollevato sulla sua volontà di morire, sulla sua consapevolezza e sulla sua “libertà”. Il medico sarà lì e aspetterà…

Nient’altro.
 

4. Continua