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MEDIO ORIENTE

La "vendetta" di Netanyahu è un boomerang per Israele

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Stretto tra la scelta di attaccare Rafah o trovare un accordo con Hamas per cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi, il premier israeliano si è infilato in un vicolo cieco, incapace di annientare Hamas senza sterminare i civili palestinesi.

Editoriali 29_04_2024
Israele, proteste contro il governo Netanyahu - Foto LaPresse

La situazione in Terrasanta resta sospesa tra l’annunciato attacco israeliano a Rafah e la difficile trattativa per un cessate il fuoco con il rilascio di almeno una parte degli ostaggi israeliani da parte di Hamas. Ma qualsiasi siano i prossimi sviluppi è difficile immaginare un esito positivo per Israele: un eventuale attacco a Rafah, dove sono rifugiati circa un milione di palestinesi scappati dal nord, promette un ulteriore aggravamento della già drammatica situazione umanitaria e il concreto rischio di isolamento internazionale, senza peraltro avere la probabilità di chiudere i conti con Hamas. Mentre una rinuncia rischia di far saltare il governo di unità nazionale oltre a portare la guerra contro Hamas in un vicolo cieco. Sull’altro fronte, un qualsiasi scambio tra il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi catturati nel tragico assalto dello scorso 7 ottobre, permetterebbe al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di alleggerire le pressioni interne ma sul piano militare significherebbe ancora una volta un grosso freno nel tentativo di eliminare Hamas, se non una vera e propria rinuncia.

In effetti, più i giorni passano più l’obiettivo di azzerare la presenza di Hamas a Gaza manu militari si rivela irraggiungibile, come del resto avevamo previsto già molto tempo fa, a meno di cacciare tutta la popolazione palestinese: ipotesi quest’ultima accarezzata da qualcuno nel governo israeliano ma assolutamente folle.

L’attuale situazione è figlia della modalità con cui Netanyahu ha reagito al terribile massacro del 7 ottobre. Nei giorni successivi a quell’attacco palestinese in terra israeliana che ha provocato 1200 morti e un bottino per i terroristi di oltre 200 ostaggi, avevamo scritto che «oggi la sfida più grande per Israele è rinunciare alla legge dell’occhio per occhio, dente per dente: sconfiggere Hamas senza sterminare i civili palestinesi, fermare questa spirale infinita di violenza che rischia seriamente un allargamento tragico della guerra».

Netanyahu ha invece scelto la strada della «vendetta», come lui stesso ha detto, cosa che Hamas non solo si aspettava ma su cui probabilmente contava.
I capi di Hamas, che non danno alcun valore alla vita dei civili palestinesi tanto da usarli come scudi umani, contavano proprio su una dura reazione militare: le tante vittime civili che ne sarebbero derivate avrebbero reso insostenibile la posizione di Israele davanti alla comunità internazionale. Quello che è puntualmente successo.

E anche dubitando del bilancio offerto da Hamas, che parla di 33mila persone uccise finora dai soldati israeliani, la distruzione e la violenza seminata a Gaza con conseguente disastro umanitario è sotto gli occhi di tutti, senza contare la crescita esponenziale dell’odio, che è già il “carburante” principale  di questo conflitto. Mentre Hamas, seppure conti la perdita di qualche migliaio di miliziani, è ben lungi dall’essere annientata.

Del resto un auspicabile futuro di Gaza senza Hamas, allo stato attuale, è impensabile senza una iniziativa politica internazionale che coinvolga anche i Paesi sponsor dei miliziani islamisti; e in ogni caso deve essere accompagnata da un piano che preveda una soluzione politica che vada alle radici del conflitto israelo-palestinese. Una soluzione che non può non prevedere una convivenza, in uno o due stati poco importa.

Quello della convivenza purtroppo è un discorso che non piace né all’attuale governo israeliano, né tantomeno ad Hamas e ai suoi sponsor, eppure è l’unica strada possibile se si vuole porre fine a questa violenza che minaccia continuamente di allargarsi. Finora incendi più grandi – come lo scambio di attacchi diretti tra Iran e Israele – sono stati contenuti grazie all’intervento dei pompieri internazionali, Stati Uniti in testa; ma se il fuoco resta vivo il rischio che parta un incendio fuori controllo diventa pericolosamente concreto.

 



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