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ISIS

La non-strategia di Obama e il silenzio dell'Europa

Barack Obama annuncia la sua strategia per affrontare l'Isis in Siria e in Iraq. E rivela, ancora una volta, di non avere una strategia, ma solo una tattica di breve periodo. Intende usare il minimo delle forze. Non ha intenzione di ricomporre la guerra civile siriana. Ma è già meglio rispetto al silenzio europeo.

Esteri 11_09_2014
Barack Obama

A 13 anni dagli attacchi dell’11 settembre, gli Stati Uniti lanciano una nuova operazione contro il terrorismo islamico, in Siria e Iraq. In un’occasione simile, con una lunga storia di lotta al terrorismo alle spalle, 3000 vittime civili americane da commemorare, una guerra che finisce (Afghanistan) e una nuova guerra che comincia, ci si sarebbe potuti attendere un discorso storico dal presidente Barack Obama. E invece, quello di ieri sera (notte fonda, per l’Italia) è stato un breve riassunto della tattica che verrà seguita per “ridurre e distruggere” l’Isis.

In primo luogo, Obama si mostra sempre al pubblico, da sei anni, come il presidente forte in politica interna e isolazionista all’estero, che ha posto fine all’intervento in Iraq, come il comandante in capo che ha promesso di far tornare le truppe a casa ovunque possibile e il prima possibile, perché “serve costruire una nazione qui in patria, prima che all’estero”. La sua grande priorità, nell’annunciare un’azione militare contro l’Isis (che il presidente chiama Isil, acronimo inglese di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) è stata quella di giustificare la sua azione, facendo intendere a chiare lettere la riluttanza con cui ha preso questa decisione. “Ho chiaramente detto che darò la caccia ai terroristi che minacciano il nostro Paese, ovunque essi siano. Questo vuol dire che non esiterò ad agire contro l’Isil in Siria così come in Iraq”. Poi subito dopo mette le mani avanti, dicendo che, sì: “Manderò 475 uomini in più in Iraq”, ma “Come ho già avuto modo di dire, queste forze americane non avranno una missione di combattimento”, ma solo compiti addestrativi. Il presidente, per evitare facili delusioni sull’eventuale durata della guerra, preannuncia che “ci vorrà tempo per sradicare un cancro quale è l’Isil. E ogni volta che iniziamo un’azione militare sappiamo che sono implicati dei rischi, specialmente per gli uomini e le donne che la conducono”. Ma: “Io voglio che gli americani sappiano che questi sforzi saranno diversi dalle guerre in Iraq e in Afghanistan. Non ci saranno truppe combattenti americane impegnate in paesi stranieri”.

Il messaggio è chiaro: Obama non voleva fare questa guerra, le circostanze lo hanno costretto, dunque dovrà fare qualcosa, ma sarà il minimo indispensabile. La sua premura è solo quella di assicurare gli americani che nessun uomo o donna (o comunque il numero minimo possibile) torni a casa in una bara avvolta dalla bandiera. Per il resto manca del tutto una strategia. Se questo doveva essere il discorso riparatore, una settimana dopo la sconcertante dichiarazione “non abbiamo ancora una strategia” per affrontare l’Isis, gli ascoltatori sono rimasti delusi. Questa è tattica, non strategia. Questa è una pezza su un problema, non una cura. Manca del tutto una visione strategica sul Medio Oriente, su cosa fare, eventualmente, dopo il conflitto.

Se gli americani andranno ad addestrare i curdi, dopo che il segretario di Stato John Kerry è stato a Baghdad (proprio ieri) a cercare il sostegno del governo centrale iracheno, Obama dovrà dirci come conciliare il separatismo dei primi con il centralismo del secondo. Non si tratta solo di una divergenza politica: sono 11 anni di attriti, anche militari, che dovrebbero essere risolti. Obama vuole intervenire in Siria, per colpire l’Isis. Questa è una svolta a 180 gradi in appena un anno: il settembre scorso lo stesso presidente era pronto ad intervenire contro il regime di Bashar al Assad e, se lo avesse fatto, avrebbe facilitato la presa del potere da parte dell’Isis stesso. Ieri non ha potuto, proprio per questo motivo, cambiare del tutto idea su Assad. Tornando a condannare il suo regime, ha ribadito l’appoggio alla resistenza siriana. Quella “laica”, contrapposta all’Isis. Ma come fare a delimitare i confini fra i due tipi di resistenza? E come fare a conciliare la resistenza siriana con gli alleati curdi, considerando che si sono combattuti fra loro per anni, nel Nord della Siria? In ogni caso, Obama non ha (e se ce l'ha non l'ha esposta) alcuna idea su come risolvere la guerra civile siriana. Se non si esce da quel conflitto civile, però, è impossibile risanare l'Iraq, il cui collasso è una diretta conseguenza del bagno di sangue di 190mila morti siriani.

Manca una visione strategica, ma manca soprattutto una visione culturale chiara del problema. Pur conoscendo la posta in gioco, Obama dichiara, anche nel discorso di ieri: “Diciamo due cose chiaramente: l’Isil non è islamico. Nessuna religione avalla l’uccisione di innocenti e la gran maggioranza delle vittime dell’Isil sono musulmane. E l’Isil, certamente, non è uno Stato”. Queste parole servono a non alienare il consenso di Paesi e movimenti alleati musulmani. Dai curdi iracheni agli sciiti filo-iraniani, dai siriani ai sauditi, tutti coloro che sono impegnati nella lotta contro l’Isis (o Isil, come lo chiama il presidente) sono musulmani. Ma continuare a negare il carattere islamico dell’Isis, alla lunga, è controproducente. L’Isis è infatti una milizia cosmopolita, formata da volontari che arrivano da Europa, Asia, Africa, dagli stessi Stati Uniti, dalla Cecenia così come da San Diego, da Pordenone, così come da Birmingham.

L’unica cosa che li accomuna è la fede fanatica nella versione più intransigente dell’islam sunnita. Si tratta del più grave problema mai affrontato dall’islam al suo interno, una guerra civile religiosa in cui i più “puri” stanno massacrando i sunniti più tiepidi, gli sciiti, i cristiani, gli yezidi per affermare un unico Califfato universale, sogno mai tramontato sin dai tempi di Maometto. Senza essere consci di questo, non si può sperare di vincere un conflitto che è trasversale, non limitato alla sola mezzaluna fertile. Non si può pensare di evitare vittime americane, risparmiando sulle truppe da inviare, senza prepararsi a una guerra che è già estesa alle città europee e americane, dove migliaia di civili rischiano di morire in sempre nuovi 11 settembre.

In ogni caso, benché incompleto, inconcludente e strategicamente limitato, il discorso di Barack Obama è già meglio rispetto al silenzio assoluto di questa parte dell’Atlantico. Cosa dice Federica Mogherini, a nome dell’Ue, a parte invitare tutti a non parlare di guerra di religione o di scontro di civiltà (negando l’evidenza dei fatti)? Cosa dice il ministro Alfano, a parte lanciare un’allerta terrorismo sull’Isis, subito corretto con una blanda rassicurazione sull’assenza di allarmi concreti su azioni imminenti? Il governo Cameron in Gran Bretagna e il presidente Hollande in Francia hanno partecipato alla missione umanitaria per salvare i civili iracheni, ma finora non hanno detto nulla sul da farsi in Iraq. L’Europa, che pure è molto più vicina al teatro di guerra, da cui parte il maggior numero di volontari jihadisti non mediorientali, appare completamente priva di una sua strategia e in attesa di disposizioni da Obama. La cui linea, quella del “guidare stando dietro”, consiste proprio nel lasciar fare il più possibile ad altri alleati. “Non seguitemi, mi sono perso anch’io” potrebbe dirci, a un certo punto. E noi dove vorremmo andare?