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escalation

Israele sotto le macerie, l’impotenza di politica e diplomazia

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La guerra con l'Iran prosegue sempre più distruttiva tra minacce e controminacce, seminando paura e incredulità tra gli israeliani chiusi nei rifugi, mentre Khamenei respinge l'ultimatum di Trump. Il monito del patriarca Pizzaballa e di padre Patton che ai politici del mondo ricorda il giudizio di Dio.
- Una guerra che prepara altre tragedie, di Riccardo Cascioli

Esteri 20_06_2025
LaPresse (AP Photo/Oded Balilty)

Paura, incredulità, sfiducia: sono queste le reazioni dei cittadini israeliani nel momento in cui abbandonano i  rifugi, dopo il cessato allarme, e si trovano davanti agli occhi situazioni irreali, che ritenevano impossibili e che provocano rabbia e delusione. Edifici sventrati dopo i bombardamenti, come quelli verificatisi a Ramat Gan, Rishon LeZion, Tel Aviv ed a Tamra, città araba della Galilea. Scheletri di cemento, nuvole di polvere, strade sepolte sotto le macerie e la cenere, mentre i soccorritori raccolgono i giocattoli dei bambini scagliati fuori dalle loro abitazioni. Uno spettacolo impressionante che ha inferto una ferita micidiale all'illusione del popolo israeliano di essere immune dalle conseguenze di possibili attacchi. Non sono immagini di quanto accade a Gaza o in Iran, ma è la cruda realtà di quanto sta succedendo in Israele.

Tra minacce e controminacce, la guerra tra Israele e Iran prosegue sempre più intensa e distruttiva. Se il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, lancia, per l'ennesima volta, l'ultimatum alla Repubblica Islamica di arrendersi, l'ayatollah Alì Khamenei, guida suprema dell'Iran, con una garbata risposta, respinge la richiesta di resa avanzata da Trump. E scrive su X: «Il fatto stesso che gli americani, amici del regime sionista, siano entrati in scena e stiano utilizzando le minacce è un chiaro segno della debolezza e dell'incapacità di quel regime».

Mentre i due Paesi belligeranti proseguono nella guerra, anche mediatica, la popolazione di Israele inizia a porsi degli interrogativi. In particolare, dopo che è stata diffusa la notizia dal direttore generale dell’Agenzia Atomica Internazionale, Rafael Grossi, che sconfessa l’annuncio dato da Israele sulla motivazione dell’attacco all’Iran. «Potrebbero esserci attività nascoste - ha detto - che sfuggono ai nostri ispettori e potremmo esserne all’oscuro. Quello che abbiamo riportato è che non abbiamo prove di un programma sistematico per una bomba nucleare».

L'aviazione militare israeliana bombarda l'Iran, ma da quest’ultimo partono dei missili che, dopo aver forato le difese, piombano sulle città israeliane. Il numero delle vittime non è chiaro. Israele parla di 24 morti e 592 feriti, mentre l’ultimo bilancio ufficiale iraniano, che risale a domenica scorsa, fissa i morti a cinquecento unità.

Ieri mattina, giovedì 19 giugno, in questa guerra dell’aria, trenta missili balistici sono stati lanciati dall'Iran. Tra questi c'era anche la cosiddetta "bomba a grappolo", che sparge su un ampio raggio munizioni più piccole, che potrebbero rimanere a terra ed esplodere in un secondo momento. Altri ordigni hanno colpito il principale ospedale israeliano, il Soroka Medical Center di Beersheba, ferendo decine di persone. Il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha scritto su X: «I tiranni terroristi iraniani hanno lanciato missili contro l'ospedale Soroka di Beersheba e contro la popolazione civile nel centro del paese. La reazione sarà pesante. L'Iran ha commesso un "crimine di guerra"». E il ministro della Difesa, Israel Katz, ha giurato che Khamenei risponderà dell'attacco, aggiungendo sempre su X: «Il codardo dittatore iraniano si nasconde nel profondo di un rifugio fortificato e lancia deliberatamente attacchi contro ospedali e edifici residenziali in Israele». Quasi trecento persone sono state trasportate negli ospedali dopo l'attacco missilistico iraniano. Dall'inizio dell'operazione Leone nascente sono arrivati ​​negli ospedali 2.345 feriti: 21 in gravi condizioni, 87 con ferite lievi.

E in Israele c'è paura. La gente esce dai rifugi il meno possibile. Resta chiuso l'aeroporto Ben Gurion, anche se è partita "l'operazione rientro", il piano del governo per riportare a casa gli oltre centomila cittadini israeliani che si trovano bloccati all'estero dall'inizio di questa nuova guerra. Gli americani hanno chiuso le sedi di Tel Aviv e di Gerusalemme. Ma c’è chi, nonostante la paura, mantiene una parvenza di vita normale, e nonostante le sirene che annunciano l'arrivo di missili, si riversa sulle spiagge. In Galilea, però, la paura è doppia. Oltre alle bombe c'è carenza di rifugi; un quarto della popolazione non ha accesso ai rifugi antiaerei. Sui gruppi whatsapp, creati per lanciare e comunicare gli allarmi, si legge anche che molti rifugi pubblici sono obsoleti e non progettati per le minacce degli attacchi moderni.

Nel frattempo, la situazione a Gaza si fa sempre più drammatica. Sono oltre 55mila i morti dal 7 ottobre 2023 e 131mila i feriti. Nelle ultime ventiquattro ore, l'esercito israeliano ha ucciso 69 palestinesi e ne ha feriti gravemente 221. Un elenco che si allunga di ora in ora. Seicentoventidue giorni di guerra. Un conflitto che sembra non finire, mentre l'odio tra i due popoli dilaga. Ed ora si aggiunge quello verso gli iraniani. Una spirale di violenza e di avversione che sta coinvolgendo l'intera regione.

La politica e la diplomazia sembrano impotenti. Ed è proprio ai politici di tutto il mondo che padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa, si rivolge in questi termini: «Vi invito a fare scelte in favore della pace. San Francesco ricordava ai potenti del suo tempo che avrebbero dovuto comparire, un giorno, davanti al giudizio di Dio. Ricordiamolo – sottolinea il padre custode – non è solo il giudizio degli elettori quello di cui tener conto, ma anche del giudizio di Dio. A tutti coloro che hanno anche responsabilità e che siedono alle Nazioni Unite – aggiunge Patton – vorrei ricordare di rileggere la Carta dei principi che avete sottoscritto nel giorno in cui avete chiesto di poter sedere nel consesso dell’Onu e fate un esame di coscienza se quei principi li state vivendo o li state tradendo».

Ieri, nonostante la guerra, a Gerusalemme si è celebrata, al Santo Sepolcro, la festa del Corpus Domini. Durante la messa le sirene hanno suonato con insistenza. Sia il patriarca, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, che l'arcivescovo emerito di Tunisi, Ilario Antoniazzi, non hanno interrotto la funzione. «Mi sono venuti i brividi. È mai possibile – ha dichiarato mons. Antoniazzi - che mentre si celebra la vittoria di Cristo che ci ha donato la sua vita, fuori l’ultima parola sia della morte?».

Nel corso dell'omelia, Pizzaballa ha parlato della difficile situazione che si vive in Terra Santa. «Quando si parla di fame, in genere, siamo soliti pensare a popolazioni lontane da noi, a qualcosa di teorico. Mai avremmo pensato che ancora oggi, qui tra noi, fossimo costretti a parlare di fame come qualcosa di reale, che tocca la vita della nostra gente. Penso a Gaza, ovviamente, ma non solo. Alle tante situazioni di povertà che il conflitto ha creato, e che rende la vita di troppe famiglie estremamente dura. Viviamo un tempo di fame reale! Ma unita ad essa vi è la fame di giustizia, di verità, di dignità. Anche queste ultime sembrano parole che appartengono ad un mondo lontano dal nostro, che nulla hanno a che fare con la nostra vita reale», ha concluso il patriarca.



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