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LA STORIA COME MAESTRA

Come in Libia vincemmo il terrorismo. Due secoli fa.

Nel 1805 gli Usa sconfissero i pirati
di Tripoli. Senza buonismi, ma molta determinazione. Sul campo, e con onore. Un'epopea degna di un film.

Cultura 24_03_2011
Presley Neville O'Bannon

 

La guerra alla Libia è la madre di tutte le battaglie geopolitiche moderne. Lo sapeva bene il padre della patria americana Thomas Jefferson (1743-1826), che l’ha combattuta prima di chiunque altro, ma che, a differenza di altri oggi, lo fece con un obiettivo preciso, distinguendo freddamente fra amici e nemici, senz’accampare inutili moralismi e soprattutto scendendo sul terreno.

Senza intraprendere alcun dibattito congressuale né pubblico, nel 1801 il presidente già autore della Dichiarazione d’indipendenza (1776), il geloso custode delle tradizioni “isolazioniste” statunitensi, decise che oltre non si poteva più andare e lanciò la prima guerra statunitense. Una guerra contro il terrorismo, difficile, sudata, lunga fino al 1805. Fu una guerra contro il terrorismo e il nemico era musulmano. E fu una guerra per molti aspetti non convenzionale che impiegò commando, unità indigene e servizi segreti, e che venne scatenata da basi militari estere ubicate con strategica perfidia sul suolo di Paesi legati agli USA da alleanze contingenti, passeggere e comunque di recente (e talora breve) vita. Una perfetta guerra da neocon, insomma, che colui che è (meritatamente) considerato una sorta di padre spirituale di ogni “libertario pacifista” volle e diresse da “falco”.

I suoi nemici mortali, crudeli erano i pirati barbareschi, i quali da due secoli scorrazzavano indisturbati per il Mediterraneo impedendo i commerci, facendo schiavi a migliaia e sognando di conquistare l’Europa. Erano disseminati per tutto il Maghreb in entità politiche variegate, talvolta in lega tattica tra loro, talaltra divisi da aspre rivalità. Alla fine del Settecento le minacce principali ai commerci mediterranei provenivano dal sultanato indipendente del Marocco e dalla reggenza di Tripoli, entità politiche semiautonome all’interno dell’impero ottomano. A quel tempo incrociavano in quelle acque perigliose anche numerosi mercantili statunitensi e questi, non meno degli altri, venivano sistematicamente depredati dalle navi corsare. Fu per questo che, nel 1796, gli Stati Uniti decisero d’inghiottire l’amaro boccone scegliendo di stringere un accordo con Tripoli che, in cambio di un tributo cospicuo, prometteva di esentare gli americani dagli abbordaggi. La pace armata salvò per un po’ i navigli a stelle e strisce, ma l’avidità dei barbareschi mandò tutto a monte nel maggio 1801 allorché il pascià di Tripoli, Yusuf ibn Ali Karamanli (1766-1838), decise una impennata surreale del dazio da dhimmi che la marineria americana doveva pagare per non venir passata a fil di spada e così Jefferson ordinò il blocco navale del porto maghrebino.

Insomma, l’“isolazionista” Jefferson si era insediato alla presidenza nel marzo di quell’anno e in luglio era già impegnato in una guerra lontana, costosa, commerciale. Fu un’epopea - rievocata e raccontata da Joseph Wheelan, giornalista di lungo corso, nelle 400 pagine di Jefferson’s War: America’s First War on Terror 1801-1805 (Carroll & Graf, New York 2003) - con scene da farci un kolossal di cappa e spada.

Indimenticabile, nel 1803, la resa della fregata statunitense Philadelphia e la cattura da parte barbaresca del suo comandante, l’eroico e noto commodoro William Bainbridge (1774-1833) con l’intero equipaggio. Manovrando troppo vicino alla costa nel tentativo di sorprendere il nemico, il Philadelphia finì per incagliarsi, esponendosi a interminabili ore di cannoneggiamenti barbareschi che però non misero a segno un solo bersaglio. Alla fine, per risparmiare la vita ai suoi uomini, il commodoro si arrese; il suo naviglio venne allora incamerato dai pirati che lo usarono subito contro il resto della flotta americana. Un’onta, che fu però lavata nel 1804 quando il commodoro Stephen Decatur jr. (1779-1820) guidò una pattuglia d’incursori che, nottetempo, riconquistò il Philadelphia e lo diede alle fiamme.

Ancora più memorabile fu però la mossa che diede la svolta decisiva, vittoriosa, alla guerra. Gli strateghi compresero infatti, spesso a proprie spese, che serviva a nulla bombardare da lontano la costa barbaresca. Ci si logorava, capirono, e soprattutto non si giungeva in alcun luogo. Appresero lì, sulla propria pelle, che la guerra lampo non esiste, ma che “presto e bene” sono virtù belliche da porre al primo posto, soprattutto se si sta dalla parte giusta, se cioè si ha ragione.

Fu così che il generale (chiacchierato) William Eaton (1764-1811), console americano a Tunisi, percorse 520 miglia nel deserto alla testa di un improbabile armata composta da maghrebini disillusi e stanchi delle soperchierie piratesche, di mercenari europei e di soli 8 marine. Eaton e i suoi aggirarono il nemico, lo presero alle spalle che non se l’aspettava e alla fine, il 27 aprile 1805, trionfarono a Derna (la seconda città nemica per importanza) vincendo tutta la guerra. Lì, al comando del tenente di marina Presley Neville O’Bannon (1784-1850), virginiano [nella foto], gli Stati Uniti issarono per la prima volta la propria bandiera su un suolo straniero.

In segno di ringraziamento, Hamet Karamanli, che rivendicava il titolo di pascià a Tripoli e che guidava gli arabi e beduini alleati degli yankee, donò a O’Bannon una scimitarra mamelucca: è ancora oggi il modello della spada da cerimonia degli ufficiali dei marine. Jefferson riscattò subito, con moneta sonante, i prigionieri del Philadelphia, il regime di Tripoli fu rovesciato, i civili salvati, i cattivi puniti e una parte del Mediterraneo restituita alla quiete. Fino al 1815, quando scoppiò la seconda guerra americano-barbaresca. La pace è una parentesi breve nel corso di guerre continue: l’Occidente moderno lo ha imparato in Libia.