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INTERVISTA / SUETTA

«Abrogare la 194 si può. Ma servono formazione e preghiera»

La sentenza della Corte Suprema USA sull’aborto può offrire ai pro vita italiani «un’opportunità per mettere in discussione una legge ingiusta». C’è un grande lavoro da fare sul piano normativo e culturale, perché «nessuna ragione può prevalere sulla sacralità della vita umana». La Chiesa non può, in nome del dialogo, venir meno alla «doverosa chiarezza» su aborto e 194. E serve recuperare la convinzione che «le buone battaglie si vincono innanzitutto con la forza di Dio». La Bussola intervista Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia - San Remo.
- LO STRANO SILENZIO DI PAGLIA, di Tommaso Scandroglio

Vita e bioetica 28_06_2022

La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha cancellato il diritto federale all’aborto imposto nel 1973 con la decisione Roe vs Wade, fa discutere, com’era prevedibile, mezzo mondo. E fa sperare anche la variegata galassia pro vita italiana, riguardo alla possibilità di arrivare un giorno all’abrogazione della Legge 194/1978. Un traguardo certamente possibile, sebbene non semplice, alla luce anche di certe differenze istituzionali, politiche e pure ecclesiali tra gli USA e il nostro Paese.

La Nuova Bussola ne ha parlato con monsignor Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia – San Remo, una delle voci più decise, nel panorama italiano, a difesa della vita nascente.

Monsignor Suetta, come ha accolto la sentenza della Corte Suprema statunitense sull’aborto?
Con molta soddisfazione. È uno stimolo per la riflessione su questo tema, che rischia altrimenti di cadere nell’indifferenza e divenire sempre più una triste abitudine.

Lei ha già lanciato dalle colonne della Bussola la proposta di abrogare la Legge 194. Dopo questa sentenza, crede che possano esserci maggiori speranze anche in Italia?
Non credo che sia un percorso facile, però questa importante decisione - che viene da un contesto molto influente sulla mentalità generale, com’è quello americano - può dare ulteriore coraggio a coloro che da sempre ritengono che la 194 non sia buona. Può essere un’opportunità per mettere in discussione una legge ingiusta.

Diversi esponenti di centrodestra hanno subito commentato che l’abrogazione della 194 non è un loro obiettivo, mostrando di non avere il coraggio e neanche la volontà pro vita che c’è nel Partito Repubblicano. Che ne pensa di questo appiattimento sulle posizioni della sinistra?
È segno del grande lavoro che c’è da fare, nel senso di un’autentica formazione sul tema. Farne una questione da tifoseria non serve. L’impegno più grande che compete a tutti i cultori della vita, credenti e non, è quello di portare il discorso sui fondamenti della questione.

Può spiegarci?
Coloro che in Italia continuano a parlare della bontà della 194, spesso, lo fanno in dipendenza di una confusione. È vero che la 194 si apre citando la “tutela sociale della maternità”: questo è un aspetto positivo, che però rimane troppo spesso sulla carta. Il fatto più grave, in ogni caso, è che questa legge consente un atto delittuoso quale l’aborto. Questo fa sì che la legge nel suo complesso non può essere considerata buona. Il discorso da fare è un altro: la legislazione, se si vuole ispirare a corretti principi antropologici sia sul piano della fede che su quello laico, deve affermare che l’aborto è illecito. E, allo stesso tempo, prevedere forme di tutela della maternità e di promozione della natalità. Il traguardo oggi può apparire difficile e lontano, ma il nostro scopo è quello di affermare con forza i principi e di dire la verità. Questo è il servizio che possiamo rendere alla buona causa dell’eliminazione dell’aborto.

Nella Chiesa statunitense, sebbene le posizioni personali siano variegate, ci sono molti vescovi combattivi sul piano della difesa dei nascituri, mentre in Italia registriamo una diffusa apatia. Che cosa si può fare di più, a livello di Chiesa italiana, sul fronte aborto?
Questa diversa attitudine verso l’aborto dipende dalle varie sensibilità e certamente anche dal tentativo di promuovere un dialogo sul tema. Però, nel dialogo, non va mai persa la doverosa chiarezza sul piano morale e anche sulla disciplina ecclesiastica. Al riguardo, ci sono vescovi americani che hanno richiamato i politici che si dicono cattolici su quali sono i principi in merito all’accesso ai Sacramenti. Questo, dal punto di vista pastorale, è un atteggiamento che condivido, perché è doveroso e prudente: ammonire e correggere fa parte della carità verso le anime.

Tornando all’idea deteriore di “dialogo”, ci sono certi ambienti cattolici, anche ufficiali, che non parlano più di abrogare la 194. Eppure, il fine dell’abrogazione, almeno tra i cattolici, dovrebbe essere pacifico...
Esattamente. Il nostro atteggiamento deve essere quello di guardare al nucleo della questione, che non è la libertà di scelta, bensì la dignità e la sacralità della persona umana. Quando si parla di aborto, il valore che viene messo maggiormente in gioco è il valore della vita nascente, che va tutelata, a maggior ragione, perché più indifesa. Se poi ci sono delle fragilità e situazioni di disagio per le donne e le famiglie, è compito della società - sia dello Stato che della comunità cristiana - dare il proprio aiuto ad accogliere la vita nascente. Ma in ogni caso nessuna ragione, per quanto importante, può essere prevalente rispetto al principio superiore della sacralità della vita umana. Purtroppo, spesso, vengono usati casi estremi per arrivare a un’affermazione esasperata di una “libertà” umana, che però così va oltre i suoi confini.

La sentenza Roe vs Wade, tra l’altro, nacque sfruttando uno stupro inventato, come poi ammise la protagonista. E, in modo simile, gli abortisti italiani sfruttarono il caso Seveso (una quarantina di bambini furono abortiti con il pretesto di malformazioni, peraltro poi smentite dalle analisi di laboratorio) per riaccendere la campagna che portò alla 194.
Spesso ci sono menzogne alla base. Altre volte c’è un utilizzo strumentale di singoli casi che attirano attenzione e sono volti a suscitare pietà. L’aborto procurato sarebbe un male anche se riguardasse casi estremi, ma purtroppo le decine di milioni di aborti ogni anno nel mondo ci restituiscono la convinzione che si ricorra all’aborto come una decisione individuale per “superare” i problemi più disparati.

Da un rapporto, di questi giorni, del Governo britannico emerge che l’aborto è usato molto spesso come metodo contraccettivo, servendosi nella stragrande maggioranza dei casi del pretesto della “salute mentale”.
Questo tema deve essere necessariamente collegato a un’adeguata comprensione dell’affettività e sessualità, che non può essere ridotta a una questione scientifica o pseudoscientifica, volta a garantire alcune “precauzioni”. Fino a quando la generazione di una nuova vita sarà vista come un peso, difficilmente cambierà la mentalità sull’aborto. Perciò, come impegno di lungo respiro, serve tornare a una visione autentica della vita e della persona umana.

Pur nella diversità delle situazioni, cosa manca al movimento pro vita italiano per raggiungere i risultati di quello statunitense?
Non conosco il movimento statunitense da vicino, ma mi colpisce per diversi aspetti. Il primo aspetto è la profonda convinzione, il secondo la compattezza e poi il suo senso di combattività buona. Per combattività buona intendo che non si tratta di promuovere contrapposizioni conflittuali, ma si tratta di ciò che nel linguaggio cristiano si chiama parresìa, cioè di non avere paura di dire la verità. E bisogna dirla anche con forme esteriori, penso alle marce e ad altre forme di informazione e sensibilizzazione. Credo che questa dimensione popolare, che coinvolge in gran parte il mondo giovanile americano, possa insegnare molto anche a noi.

Sia il comunicato della Conferenza episcopale statunitense che alcuni mezzi laici di comunicazione pro life hanno sottolineato, oltre al lavoro culturale di questi 50 anni, il ruolo che ha avuto la preghiera.
Questo è fondamentale. Spesso nell’esperienza del movimento pro vita americano si intrecciano questi elementi: da un lato, l’impegno e il coraggio derivano dalla fede; dall’altro, molto spesso, l’incontro con il movimento pro life conduce molte persone alla fede. Noi dobbiamo recuperare questo aspetto spirituale e soprannaturale: le buone battaglie non si vincono solo per l’abbondanza delle risorse umane, ma si vincono innanzitutto con la forza di Dio. Con la preghiera imploriamo Dio perché ci apra delle strade. E l’impegno concreto non è la presunzione di farcela da soli, ma è il nostro modo di partecipare al disegno di Dio e alla Sua opera nella storia.