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MEDIO ORIENTE

Ucciso Sinwar, il capo di Hamas. Una svolta inaspettata nella guerra a Gaza

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Yahya Sinwar, il capo supremo di Hamas, è stato ucciso dall’esercito israeliano. Era lo spietato mandante del pogrom del 7 ottobre 2023. Era stato a lungo prigioniero in Israele, poi liberato nel 2011, scambiato con il caporale Gilad Shalit. E aveva studiato, oltre all'ebraico, anche i punti deboli della società israeliana.

- Parla Michel Abboud, presidente Caritas Libano di Nicola Scopelliti

Attualità 18_10_2024
Ucciso Sinwar, il capo di Hamas. Una svolta inaspettata nella guerra a Gaza (La Presse)

Yahya Sinwar, il capo supremo di Hamas, è stato ucciso dall’esercito israeliano, quasi casualmente, in una delle tante operazioni di antiterrorismo a Rafah, vicino al confine con l’Egitto. Mercoledì 16 ottobre, verso sera, soldati dalla 828^ Brigata hanno individuato tre sospetti terroristi in una residenza privata, che poi si rivelerà una sede di comando protetta da numerose trappole esplosive. Dopo uno scontro a fuoco i tre sono stati uccisi. I soldati hanno riconosciuto il capo di Hamas. Però prima di diffondere la notizia l’Idf (Forze di difesa israeliane) ha atteso dei riscontri oggettivi. Dopo che il corpo è stato esaminato dalla polizia scientifica e ieri pomeriggio, giovedì 17 ottobre, è stata data la conferma definitiva: era veramente Yahya Sinwar. Questo è il colpo più duro finora inferto a Hamas.

Per un anno, il leader terrorista aveva eluso la caccia degli israeliani. Si nascondeva nei tunnel, cambiava frequentemente rifugio, i servizi di Gerusalemme erano convinti che fosse nel sud della Striscia di Gaza, ma non sapevano esattamente dove fosse. Si faceva scudo degli ostaggi israeliani, secondo le testimonianze dei prigionieri liberati e anche secondo fonti dell’Idf. Gli ultimi che gli facevano da scudo erano i sei che lui stesso ha ordinato di giustiziare, a settembre, prima che potessero essere liberati: Hersh Goldberg-Polin, Eden Yerushalmi, Carmel Gat, Almog Sarusi, Alexander Lobanov e Ori Danino. Nel luogo in cui Sinwar è stato ucciso, non sono stati trovati altri ostaggi, dunque si era liberato della sua “protezione” umana.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha proclamato la vittoria in questa battaglia (ma non quella della guerra). «È l’inizio del primo giorno senza Hamas – dichiarava ieri il primo ministro – L’uomo che ha condotto il peggior massacro del nostro popolo dai tempi dell’Olocausto, il pluri-omocida che ha assassinato migliaia di israeliani, rapito centinaia di nostri connazionali, è stato eliminato dai nostri eroici soldati». Ai parenti degli ostaggi assicura: «Questo è un momento importante della guerra. Continueremo con tutte le nostre forze finché tutti i vostri cari - i nostri cari - non saranno tornati a casa». E ai terroristi di Hamas, invece: «chiunque faccia del male ai nostri ostaggi, il suo sangue sarà sulla sua testa (sic!). Faremo i conti con lui».

Soddisfazione anche nell’amministrazione americana. I servizi Usa, secondo quanto dichiara il presidente Biden, hanno contribuito a dare la caccia al capo di Hamas. Adesso, per il presidente americano, alla vigilia delle elezioni, potrebbe essere arrivato il momento per un accordo sulla liberazione degli ostaggi: «Ora c'è l'opportunità di un nuovo corso a Gaza senza Hamas al potere e di una soluzione politica che offra un futuro migliore sia agli israeliani che ai palestinesi». Perché «Yahya Sinwar era un ostacolo insormontabile per raggiungere tutti questi obiettivi. Quell’ostacolo non esiste più. Ma c’è ancora molto lavoro da fare».

Sinwar era il vero mandante del pogrom del 7 ottobre, eseguito poi da Mohammed Deif, comandante dell’ala militare di Hamas, ucciso anch’egli in un raid aereo. Penetrare in territorio israeliano, torturare e uccidere civili, catturare ostaggi, soprattutto militari: questo era il piano, complesso e brutale. Se non fosse stato fermato dalla reazione dell’esercito, il piano prevedeva anche un’operazione più in profondità, oltre Sderot e la fascia di confine di Gaza. Di civili ne ha fatti torturare e uccidere ben 1200, di ostaggi ne ha catturati 251, di cui almeno 101 sono ancora nella Striscia di Gaza, ma di 48 è stata confermata con certezza l’uccisione durante la prigionia.  

Quando, il 31 luglio scorso, il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, è stato ucciso dagli israeliani a Teheran, Sinwar (che fino ad allora era a capo di Hamas solo a Gaza) è stato promosso al rango di capo politico di tutto il movimento. E subito lo ha ulteriormente radicalizzato. Già era lui il responsabile del fallimento di numerosi tentativi di negoziato, a Doha e al Cairo, opponendo un netto rifiuto a tutte le soluzioni di cessate il fuoco che non contemplassero un ritiro unilaterale e permanente delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza. Divenendo lui il capo del movimento, c’è chi ha sperato che si moderasse e cambiasse rotta. Ma la prima cosa che ha fatto è stato quello di ordinare la ripresa degli attentati suicidi in Israele, una tattica di lotta che Hamas aveva abbandonato quasi del tutto dai tempi della Seconda Intifadah (2000-2005), preferendo azioni di guerriglia da Gaza. Un primo attentato, fallito, è avvenuto a Tel Aviv, appena una settimana dopo l’insediamento del nuovo capo. Nella prima settimana di ottobre, come per celebrare l’anniversario del pogrom, Hamas ha mandato a segno due attentati, uno a Jaffa (sette morti) proprio durante l’attacco missilistico iraniano del 1 ottobre scorso e uno a Beersheba, dove è stata uccisa una soldatessa israeliana.

Non c’era da sperare in una svolta moderata, nonostante le indiscrezioni (poi smentite) che indicavano la volontà di Sinwar di cercare un salvacondotto per sé, per rifugiarsi in un paese amico, in cambio di un cessate il fuoco e della liberazione degli ostaggi ancora in vita. Nella sua strategia, i morti civili erano, non solo inevitabili, ma addirittura auspicabili per Hamas e per la causa palestinese in generale. Nei suoi messaggi inviati a Doha, e riportati in un’inchiesta del Wall Street Journal, riferendosi ai morti civili a Gaza parlava di “sacrifici necessari”, come lo erano stati i morti nella guerra d’Algeria che portò alla liberazione dalla Francia. Quando, in un attacco israeliano, sono stati uccisi tre dei figli di Haniyeh, nel messaggio spedito a Doha diceva che la loro morte, così come quella degli altri palestinesi, avrebbe «infuso linfa vitale nelle vene di questa nazione, rendendole onore e gloria».

La storia di Sinwar è quella di una vita nel terrorismo. Già agli albori di Hamas, alla fine degli anni Ottanta, fu tra i fondatori della polizia interna, il Majd, con il compito di scovare e uccidere i sospetti collaborazionisti. Ne uccise almeno quattro con le sue stesse mani. Quando rapì e uccise anche due soldati israeliani, durante la Prima Intifadah, nel 1988 venne arrestato e nel 1989 condannato a quattro ergastoli. Scontò la sua pena nel carcere di Beersheba, nel sud di Israele, dove si impose subito come uno dei capi (“emiri”) dei prigionieri.

Nel 2004 venne salvato da un medico israeliano, Yuval Bitton, che gli diagnosticò in tempo un tumore al cervello. Entrato in confidenza con il suo salvatore, gli spiegò la sua visione. Bitton, dopo il 7 ottobre, ha descritto un Sinwar molto determinato, capace di recitare a memoria l’intero Corano, convinto di distruggere Israele, per motivi religiosi, in quanto terra islamica, non negoziabile, rifiutando ogni compromesso e ogni soluzione “a 2 Stati”. Aveva studiato la lingua e la cultura ebraiche ed era anche convinto di aver scoperto il punto debole di Israele: i suoi soldati. Ogni israeliano è un soldato, in un esercito di milizia. Quindi rapendo i soldati, gli israeliani, colpiti al cuore, sarebbero stati disposti a dare qualunque cosa in cambio, pur di riaverli indietro. Nel 2011 sfruttò questa “debolezza” riuscendo a farsi inserire nella lista dei mille prigionieri palestinesi liberati in cambio della restituzione di un unico soldato, il caporale Gilad Shalit, catturato a Gaza cinque anni prima.

Ieri è stato proprio il dottor Yuval Bitton a riconoscere Sinwar e a dare la conferma della sua identità: il calco dei denti e le impronte digitali coincidevano con quelle del prigioniero che contribuì a salvare venti anni fa.