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G20 E COP26

Transizione ecologica = declino economico

Le élites  occidentali vogliono la “transizione ecologica” per gestire il declino economico e cementare il proprio potere. 

 

Editoriali 02_11_2021 English Español

Il G20 tenutosi a Roma nei giorni scorsi e la Cop 26 inaugurata ieri a Glasgow segnano un'ulteriore accentuazione nella retorica allarmista sugli interventi per scongiurare la “crisi climatica” da parte dei maggiori governi occidentali. Ma, al tempo stesso, questi due appuntamenti segnano anche una cesura sempre più percepibile tra quella retorica sempre più ultimativa, da un lato, e i programmi effettivamente concordati dai governi per ridurre le tanto demonizzate emissioni di CO2, che viceversa vedono un tangibile annacquamento, divenendo più vaghi e meno cogenti.

In aggiunta, nei due consessi citati viene alla luce in maniera ormai inequivocabile la nettissima divergenza, su questi temi, tra Europa e Stati Uniti da un lato, paesi asiatici dall'altro. Una divergenza evidenziata dalla partecipazione sottotraccia di Russia a Cina al vertice di Roma, e dalla loro assenza a quello di Glasgow. E rispecchiata dall'obiettivo generico, enunciato alla conclusione del G20 romano, di limitare “entro la metà del secolo” la crescita della temperatura del pianeta a 1 grado e mezzo.

Insomma, a dispetto della pressante mobilitazione lanciata negli ultimi due anni sul clima, simboleggiata dalla figura “ieratica” della giovane Greta Thunberg, pare ormai evidente che rispetto al quadro delineato dagli accordi di Parigi del 2015 – formalmente approvati ma in realtà ampiamente disattesi dalla maggior parte dei paesi asiatici industrializzati – si sia ormai pervenuti a un implicito compromesso. L'Occidente persegue con decisione la campagna per la “de-carbonizzazione” puntando alla “neutralità” rispetto agli idrocarburi entro il 2050 (sia pure lasciando aperti molti interrogativi sulla concreta possibilità ed effettiva volontà di raggiungere l'obiettivo) assecondando una “narrazione” come quella espressa dal premier britannico Boris Johnson in apertura della Cop26, secondo cui siamo a “un minuto dalla mezzanotte” e occorre procedere a rimedi estremi prima che si verifichi una catastrofe irreversibile. Nel frattempo, l'Asia viene lasciata relativamente libera di continuare la sua imponente crescita economica valutando con elasticità eventualità, tempi e modi di una “conversione” energetica che attualmente appare assolutamente irrealistica, e ancor più invisa ad aree del mondo soprattutto ansiose di aumentare il tenore di vita delle proprie popolazioni, o – come la Russia – ancora indissolubilmente legate economicamente allo sfruttamento di petrolio e gas naturale. 

Questa chiarissima, radicale differenziazione tra i paesi industrializzati dell'Ovest e quelli dell'Est (con l'America Latina in una posizoine mediana, e l'Africa ancora a fare da spettatrice), al di là della tenue cortina di una presunta unità d'intenti, rappresenta una svolta storica le cui radici e il cui significato vanno adeguatamente compresi.
In sintesi, essa si potrebbe riassumere in questi termini: le nazioni di più recente industrializzazione vedono la crescita economica come un fine assoluto ed inderogabile, mentre quelle di industrializzazione più antica e dal benessere più radicato hanno scelto di gestire la propria decrescita.

La scelta di enfatizzare i timori di una asserita emergenza climatica per promuovere una profonda trasformazione sociale da parte delle classi dirigenti occidentali, infatti, va letta tanto in chiave economica e politica quanto in chiave psicologica. Le società “affluenti” o “opulente” sono sempre più invecchiate e infeconde, sempre più minate dal nichilismo e dalla secolarizzazione integrale, sempre più incapaci di sostenere la crescita economica con la moltiplicazione dei consumi a spese del debito pubblico e privato. I sentimenti prevalenti nelle loro popolazioni sono la paura del futuro, il terrore della morte, l'angoscia di perdere ciò che si possiede. La psicosi dell'apocalisse climatica è una delle espressioni di questo sentimento diffuso. In essa – come nella più recente psicosi del contagio pandemico – si sublima un generale atteggiamento del tutto rinunciatario e difensivo rispetto alla dialettica storica, al conflitto, al rischio.

I ceti di governo occidentali esprimono fisiologicamente, attraverso i sistemi rappresentativi, questo stato psicologico dominante nei loro governati. Ma, in aggiunta, hanno deciso di prendere la palla al balzo e di utilizzarla per cementare il proprio potere, in alleanza e convergenza di interessi con i giganteschi oligopoli dell'economia digitalizzata che oggi dominano i loro mercati. Le élites politiche e quelle economiche hanno abbracciato con entusiasmo la “narrazione” secondo cui la civilizzazione umana – ed in particolare l'industrializzazione dal Novecento in poi – è la principale responsabile dei cambiamenti climatici, e una drastica “conversione” ecologica in un'umanità a “impatto zero”, “sostenibile”, “biodegradabile” possa invertire la corsa verso l'apocalisse, stendendo tappeti rossi davanti a Greta e ai suoi sostenitori. In questo modo, con il pretesto della epocale “transizione” da attuare in tempi brevissimi, esse intendono imporre in realtà ai loro popoli una enorme concentrazione del potere, una svolta dirigista, una fusione tra mega-capitalismo privato e programmazione statale coordinata a livello sovranazionale, che dovrebbe portare ad un “raffreddamento” controllato non tanto del clima, ma delle società: compressione e “dematerializzazione” dei consumi, assorbimento della piccola e media impresa in grandi gruppi destinatari di incentivi e sussidi pubblici, netta separazione tra ceti elevati ancora in grado di sostenere la corsa ai consumi e masse sotto-proletarizzate, sotto-occupate o affidate a “redditi di cottadinanza”, “profilate”, “confinate”, bio-controllate, forse con un sistema di “credito sociale” sul modello cinese, amministrato da  app e banche, dati condivise tra imprese e governi.

La “transizione ecologica” appare, insomma, a somiglianza dell'emergenzialismo sanitario, come un progetto tutto interno alla deriva nichilista occidentale, finalizzato a controllare un declino visto come inevitabile: chiudendo le società (ex) opulente in una fortezza, salvando finché è possibile le aristocrazie, disinnescando il conflitto sociale. Fino a quando, il più  tardi  possibile, i grandi mutamenti in corso nel resto del mondo inevitabilmente busseranno alla porta, e nei nuovi equilibri di potere a livello internazionale ciò che resterà dell'Occidente si troverà in posizione fatalmente subordinata rispetto a nuovi padroni.

Ma le classi dirigenti occidentali non guardano così lontano. Nichiliste come sono, a loro basta restare in sella per il tempo della loro vita biologica. E “dopo di noi il diluvio”.