Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Rita da Cascia a cura di Ermes Dovico
La sentenza

Suicidio, la Consulta conferma (per ora) il paletto dei sostegni vitali

Ascolta la versione audio dell'articolo

Con la sentenza 66/2025 la Corte costituzionale ha confermato il requisito dei trattamenti di sostegno vitale come precondizione per accedere al suicidio assistito. Ma è un paletto che prima o poi salterà, vista la legge 219 e l’autodeterminazione sottesa alla decisione della Consulta, che bypassa la dignità della persona.

Vita e bioetica 22_05_2025

Ennesima puntata sul suicidio assistito. La sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale (qui un approfondimento) permise l’accesso all’aiuto al suicidio – che rimane reato ex art. 580 Cp – al verificarsi di queste condizioni: persona capace di intendere e volere che ha preso questa decisione in modo libero e consapevole, affetta da patologie irreversibili e fonti di sofferenze insopportabili e mantenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (TSV). I Radicali già provarono ad eliminare questo ultimo criterio, ma la Consulta rispose a loro picche con la sentenza n. 135/2024 (qui un approfondimento).

Prima della pubblicazione di quest’ultima sentenza, il Gip del Tribunale di Milano sollevò anche lui questione di legittimità costituzionale in merito al requisito dei TSV. La Corte costituzionale ha pubblicato lo scorso 20 maggio la sentenza n. 66/2025 e ha ritenuto infondate le motivazioni addotte dal Gip per le medesime ragioni già presenti nella sentenza del 2024: quindi il criterio relativo ai TSV rimane.

Il caso è questo. Nel 2022 il leader radicale Marco Cappato, ormai tassista della “dolce” morte, aveva accompagnato due persone a morire in Svizzera. Poi, come al solito, si era autodenunciato per aiuto al suicidio. Il Pm aveva chiesto l’archiviazione perché secondo lui il caso di queste due persone rientrava nei requisiti indicati dalla Consulta. Il Gip però era stato di avviso contrario: per lui mancava il requisito dei TSV. Il Gip quindi ne approfitta, blocca il procedimento e chiede alla Consulta di pronunciarsi su questo criterio chiedendone l’eliminazione.

Innanzitutto, secondo il Gip, il criterio dei TSV lede il principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione. Vi sarebbe «“una irragionevole disparità di trattamento”, unicamente in quanto il paziente “non ha voluto iniziare un trattamento sanitario vitale perché ritenuto inutile”». Il Gip rileva questa discriminazione: un paziente, affetto da patologia irreversibile e fonte di sofferenze intollerabili, può accedere al suicidio assistito perché è mantenuto in vita da TSV e un altro paziente, nelle sue stesse condizioni, non può essere aiutato a morire perché non è mantenuto in vita dal TSV che ha rifiutato.

Prima di lasciare la parola alla Consulta, leggiamo la replica dell’Avvocatura dello Stato, intervenuta nel giudizio, ripresa nei contenuti dal Presidente del Consiglio, intervenuto con una memoria. L’Avvocatura, come riportato in sentenza, afferma che è «evidente che, in relazione a malattie irreversibili, l’utilità non andrebbe riferita alla guarigione, ma al fine di assicurare al malato “il mantenimento in vita”». In altri termini, se la terapia è salvavita non può essere considerata inutile. Ma per il Gip, le cui doglianze rispecchiano le istanze dei Radicali, sono inutili, sproporzionate e configurano accanimento terapeutico tutte quelle cure incapaci di guarire il paziente, compresi i TSV ai quali, aggiungiamo noi, non deve essere chiesto di guarire, bensì, per l’appunto, di mantenere in vita la persona.

La Consulta risponde all’obiezione del Gip (secondo cui il requisito dei TSV sarebbe discriminatorio) in tal modo: se il paziente rifiuta un TSV perché considerato inutile vuol dire che gli è stato prescritto. Ma se gli è stato prescritto significa che la condizione del paziente rientra appieno nei criteri indicati dalla sentenza del 2019 e poi specificati da quella del 2024: infatti i TSV sono quelli già in essere e quelli che, a motivo di prescrizione medica, dovranno essere applicati. Dunque nulla quaestio: il paziente a cui devono essere applicati i TSV e li rifiuta può accedere al suicidio assistito e quindi non serve eliminare il requisito relativo ai TSV per andare incontro alle esigenze di questi pazienti.

In merito invece al caso di un paziente a cui non è stato prescritto nessun TSV – caso che per il Gip configurerebbe violazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost. perché vulnus all’autodeterminazione del paziente costretto a sottoporsi a TSV per poter poi morire – i giudici affermano che «la sua situazione non è assimilabile a quella di un paziente la cui vita dipenda, ormai, dal trattamento in questione». Questa distinzione deriva, per esplicita ammissione della Corte, dalla legge 219/2017 sul consenso informato: hanno diritto di morire solo coloro che rifiutano un trattamento salvavita da iniziare o già iniziato. Dunque, il diritto a morire è legato al requisito del TSV: solo coloro che dipendono o dipenderanno a breve da tali mezzi di sostentamento vitale possono chiedere di morire.

Qui la Corte si accorge che il mero riferimento normativo – abbiamo scelto il criterio scriminante del TSV perché contenuto nella legge 219 – è debole e sa benissimo che le argomentazioni di Cappato e della Consulta di Bioetica proposte alla Corte – fate accedere al suicidio assistito almeno i pazienti con «prognosi infausta a breve termine» – sono giuridicamente valide. Infatti, come già accennato, se permetto di morire a chi soffre molto, non ha possibilità di guarire ed è tenuto in vita da TSV, perché non permetterlo a chi versa nelle stesse condizioni, ma non è tenuto in vita da TSV? La risposta della Corte non convince perché fa leva su un criterio meramente discrezionale e quindi arbitrario. La Consulta dice in sostanza: abbiamo dovuto trovare un bilanciamento tra tutela della vita e libertà personale. A tal fine noi abbiamo usato i quattro criteri prima indicati, ma non è escluso che il legislatore ne usi altri. Ciò a dire che, in fondo, i Radicali possono avere ragione ad allargare il bacino di utenza dei richiedenti la morte sanitaria. Spetta però al Parlamento decidere, non ai giudici. Non è dunque questione di merito, bensì solo di competenze. Ed è per questo che la sentenza si chiude con l’ennesimo invito al legislatore affinché intervenga sulla materia. Invito che pare proprio sia stato accolto, come abbiamo illustrato qualche giorno fa.

Ma attenzione a cosa intende la Corte per “tutela della vita”. Questa «attiene alla necessità di prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, perché in situazioni di fragilità e sofferenza la scelta di porre fine alla propria vita potrebbe essere indotta o sollecitata da terze persone, per le ragioni più diverse». Come esplicitamente tiene a chiarire la Corte, la vita va tutelata non come bene in sé, non come bene indisponibile che impone il dovere di vivere, bensì va difesa solo relativamente a quelle situazioni di fragilità più esposte al rischio di manipolazioni e abusi. E dunque la tutela della vita è intesa meramente come cintura di protezione a salvaguardia del principio di autodeterminazione (cfr. ordinanza Corte Cost. n. 207 del 2018). Quindi non si tutela la dignità della persona umana, da cui deriva il divieto originario di aiutare a morire, bensì la libertà personale: se una persona ha liberamente preso la decisione di morire va bene, altrimenti non va bene. Perciò il principio cardine non è la vita, ma l’autodeterminazione. Allora, ridotta all’osso la questione, non c’entra nulla il bilanciamento tra tutela della vita e libertà personale, perché, nel caso presente, non esistono due beni divergenti, bensì uno solo: la libertà personale.

In conclusione, possiamo dire che il paletto dei TSV non è saltato, ma salterà. Infatti i giudici, già molti anni or sono e in modo ripetuto, e poi la legge 219 hanno sancito il diritto a morire. Sancito il diritto, poi sarà inevitabile che questo diritto possa e debba essere esercitato in tutti i modi e per chiunque: tramite il suicidio o l’omicidio del consenziente, tramite il rifiuto di cure salvavita da iniziare o già in essere, tramite iniezione letale o sedazione profonda, per persone capaci e incapaci, pazienti mantenuti in vita da TSV e senza questi presidi, per chi è in stadio terminale e per chi ha aspettative di vita decennali, per chi è depresso ma sano nel corpo, per chi è consenziente e per chi non lo è, eccetera (la legge già tutela molti di questi casi). Il principio è stato accettato. Le conclusioni saranno inevitabili.



Il Ddl

Aiuto al suicidio, riecco i cattolici che votano leggi ingiuste

Già approvato alla Camera, il 14 luglio sarà discusso al Senato un disegno di legge che richiama, con qualche miglioramento, i criteri indicati dalla Consulta per l’accesso al suicidio assistito e sembra poter raccogliere il voto del centrodestra. Ma il male, anche se “minore”, non può essere approvato.

La sentenza

Sostegni vitali e suicidio assistito, una Consulta a due facce

La Corte costituzionale mantiene i trattamenti di sostegno vitale come prerequisito per accedere al suicidio assistito. Deluse le speranze dei Radicali, ma nemmeno i pro vita esultano. Da un lato la sentenza allarga il bacino di possibili candidati al suicidio. Dall’altro, rispetto al 2019, dà un’interpretazione più restrittiva dei sostegni vitali.

LA SENTENZA

Suicidio, la Consulta apre all’obiezione di coscienza. Che non reggerà

La Corte Costituzionale ha pubblicato la sentenza sull’incostituzionalità di parte dell’articolo 580 del Codice penale. A determinate condizioni, l’aiuto al suicidio non è più penalmente perseguibile. Eppure la Consulta ha riconosciuto l’obiezione di coscienza a favore dei medici (ma non della struttura ospedaliera), che però è destinata a essere spazzata via, causando l’eutanasia anche della libertà dei medici.