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CONTINENTE NERO

Sud Sudan un anniversario nel sangue

Quattro anni fa nasceva lo Stato più giovane del mondo: il Sud Sudan. Dopo guerra civile e il genocidio (scatenato dal Nord islamico), il Sud, prevalentemente cristiano e animista, credeva di aver trovato la pace nell'indipendenza. E invece: dal 2013, si combatte una guerra civile violentissima.

Esteri 09_07_2015
La bandiera del Sud Sudan

Quattro anni fa, il 9 luglio 2011, nasceva il Sudan del Sud, il più giovane stato del mondo. Lo compongono i territori meridionali del Sudan popolati in prevalenza da etnie di religione cristiana che per oltre mezzo secolo, dall’indipendenza del paese nel 1956, sono state oppresse, perseguitate e discriminate dalla leadership islamica, di origine araba, al potere a Khartoum.

L’emergere nel 1983 di un movimento armato per la liberazione del sud, l’Spla, l’adozione della shari’a come legge di stato nello stesso anno e, nel 1989, il colpo di stato di Omar Hassan al Bashir, da allora alla guida del paese con mano libera di reprimere ogni manifestazione di dissenso, avevano segnato il degenerare della situazione in guerra civile. Solo nel 2005 un accordo globale di pace faticosamente raggiunto con la mediazione internazionale metteva fine al conflitto costato due milioni di morti. L’accordo prevedeva, al termine di sei anni di amministrazione autonoma, che le popolazioni meridionali decidessero se restare legate al Sudan, mantenendo l’autonomia amministrativa, oppure separarsene. Nel gennaio del 2011, con un referendum, il 98,81% dei sud sudanesi sceglieva la secessione e l’11 luglio dello stesso anno il mondo acclamava un Sudan del Sud indipendente, nato sotto i migliori auspici: poco più di dieci milioni di abitanti, un paese tutto da costruire, ma disponendo di crediti internazionali smisurati, di una missione delle Nazioni Unite, la Unmiss, su cui contare, dell’aiuto di centinaia di organizzazioni non governative e, cosa più importante, di immensi giacimenti di petrolio con impianti di estrazione già in funzione – quelli per cui Khartoum aveva lottato fino all’ultimo – e di una popolazione quasi tutta giovane: 46% i bambini da 0 a 14 anni, futura ricchezza del paese purchè si volesse crescerli sani e istruiti, 50% i giovani e gli adulti tra i 15 e i 54 anni. 

Bastava solo evitare due tentazioni fatali: la corruzione sfrenata che trasforma le risorse nazionali in bottino e il tribalismo che induce ogni etnia, ogni clan, ogni lignaggio a escludere per quanto possibile gli altri dalla sua spartizione, il mezzo ideale essendo far man bassa di cariche politiche e amministrative a ogni gradino dell’apparato statale. 

I leader dell’Spla, divenuto partito di governo, non ne sono stati capaci. Poco dopo l’indipendenza il presidente Salva Kiir, indispettito nello scoprire dei vuoti nelle casse dello stato, denunciava “livelli di corruzione mai visti”, rivelando la scomparsa di un terzo dei proventi petroliferi – quattro miliardi di dollari – durante i sei anni trascorsi tra la firma dell’Accordo globale nel 2005 e l’indipendenza. 

Un disagio crescente per l’egemonia sempre più marcata del presidente Salva Kiir e della sua etnia Dinka, la più numerosa del paese, è culminato nell’estate del 2013, a soli due anni dall’indipendenza, nell’annuncio del vicepresidente Riek Machar, di etnia Nuer, di volersi candidare alle successive presidenziali previste nel 2015. Salva Kiir ha immediatamente reagito destituendolo. Nelle settimane successive la tensione si è accentuata finché a dicembre ne è nato un conflitto armato, con i militari divisi e gli eserciti di alcuni gruppi ribelli schierati con gli uni o gli altri, a seconda dell’etnia d’appartenenza. Quasi subito lo scontro ai vertici politici si è trasformato in conflitto etnico generale con livelli di violenza, brutalità e crudeltà, a detta degli osservatori, terrificanti nell’inferire sulle etnie avversarie, sui bambini e sulle donne in particolare. Ci sono casi di bambine violentate e poi bruciate vive tra le testimonianze più sconvolgenti. 

Tutti i tentativi di mettere d’accordo le parti sono falliti. Kiir e Machar hanno firmato diversi cessate il fuoco e impegni a dialogare, ma li hanno sempre violati ordinando alle rispettive milizie di continuare a combattere. Non c’è volontà di pace ai vertici e tra la popolazione l’ostilità etnica è esasperata dalle violenze estreme inflitte e subite. Invano il Consiglio delle Chiese ricorda ai contendenti e alla popolazione di essere cristiani. Lo scorso maggio un appello dei vescovi in favore della popolazione “uccisa, torturata e violentata” ammoniva: “chi uccide non si dica cristiano”. Come altri appelli, è caduto nel vuoto.

Oggi, nell’anniversario dell’indipendenza, quasi cinque milioni di sud sudanesi hanno bisogno di aiuti alimentari e sanitari per sopravvivere. Due milioni sono profughi, in prevalenza sfollati, i più fortunati, circa 150.000, ospitati in basi ONU dove sono relativamente al sicuro oltre a ricevere assistenza quotidiana, mentre i combattimenti impediscono di prestare aiuto a centinaia di migliaia di persone anche per lunghi periodi. Le vittime si contano a decine di migliaia. 400.000 bambini non vanno più a scuola da mesi. 13.000 combattono, arruolati a forza nell’esercito governativo e dalle milizie antigovernative. Le casse dello stato sono vuote. La produzione di petrolio, praticamente l’unica fonte di capitali per il governo, è ridotta di almeno un terzo e già prima della guerra risentiva negativamente del contenzioso con il governo del Sudan che pretende compensi elevati per far transitare il greggio attraverso i propri oleodotti fino ai terminali di Port Sudan, unico mezzo per esportare il petrolio sud sudanese.

Nei giorni scorsi centinaia di operai hanno freneticamente lavorato nella capitale Juba per ripulire, rabberciare, sistemare strade e  riverniciare edifici, alla meglio, per rendere almeno presentabile il percorso della parata militare e l’area scelta dal presidente Kiir per le solenni celebrazioni. Celebrazioni di che cosa, non si sa.