Sacro e profano, la distinzione da recuperare
Una certa corrente teologica insiste sul fatto che, con Dio che si è fatto carne, la distinzione sacro-profano sarebbe venuta meno. Questa idea ha ricadute gravi sulla liturgia. In realtà, l’Incarnazione compie e perfeziona la dualità sacro-profano. Solo con la Parusia, Dio, il Sacro, sarà tutto in tutti.

Ogni volta che delle persone partecipano, magari per la prima volta, alla Divina liturgia (degna di questo nome), l’intonazione ammirata che esce dalla loro bocca si colloca su una frequenza molto simile, che cerca in sostanza di tradurre e trasmettere l’esperienza del sacro appena vissuta. Espressioni come “mi sembrava di essere in Paradiso”, “mi sentivo elevato”, “era come se fossi trasportato in un’altra dimensione”, indicano con semplicità l’esperienza dell’essere entrati in contatto con una realtà diversa, più pura, irresistibilmente attraente e al contempo respingente e inafferrabile. Non mancano poi i casi in cui atei, agnostici o persone semplicemente smarrite ritrovano la fede colpiti dalla maestà di Vespri solenni, del canto gregoriano in una Messa conventuale o ancora dal silenzio di una “Messa bassa” nella penombra del mattino, in una piccola chiesa isolata.
Al di qua della specificità del cristianesimo e della novità portata da Gesù Cristo nella storia dell’uomo, si deve notare che la categoria del “sacro” appartiene trasversalmente a tutte le tradizioni religiose. Essa, nel suo nucleo più autentico, è data da quell’insieme di riti, luoghi e tempi che permettono all’uomo di sperimentare l’epifania del divino. Più precisamente, questa ierofania si rende possibile mediante il ricorso ad un complesso di oggetti, gesti, persone, canti, che hanno la qualifica di essere distinti e separati da ciò che caratterizza l’ordinarietà della vita (il profano). Questa struttura tensiva di fondo, sacro-profano, è l’elemento indispensabile e strutturante ogni possibilità di ierofania e di esperienza religiosa ad essa connessa.
Come ha mostrato il grande antropologo e storico delle religioni, Mircea Eliade (1907-1986), il rito sacro si costituisce in qualche modo come l’accesso ad un altro ordine di cose, ad un altro mondo più vero e autentico; questa alterità è essenziale perché il sacro si manifesti. Essa però rimane in relazione con questo mondo, in quanto ne costituisce come il modello originario, più precisamente l’archetipo che non è un semplice prototipo estrinseco, ma un modello che sempre esercita la sua influenza. Il rito sacro, infatti, mentre ci fa accedere al mondo “altro”, riplasma, rimodella e in un certo senso risana questo mondo, riconducendolo, per così dire, più vicino all’originario. Il rito è dunque compreso come una potente azione su questo mondo, perché permette all’archetipo di essere operativo; e questa azione accade proprio mentre se ne “aliena”, precisamente avvalendosi di oggetti, luoghi e tempi “separati” dalla profanità. Questa separazione dal profano è la condizione per permettere all’originario di manifestarsi e di liberare la propria inesauribile energia sul mondo.
Eliade ha cercato di liberare il sacro da un’interpretazione restrittivamente sociologica (come quella di Durkheim, per esempio), che ritiene il sacro come produzione del vissuto, della coscienza collettiva di una società, restituendolo al suo contesto propriamente religioso. Julien Ries (1920-2013), che continuò sulla linea di Eliade, ha messo poi in evidenza che le innumerevoli e differenti manifestazioni del sacro hanno una strutturazione comune: quella di mettere in comunicazione con il divino, mediante l’interazione di elemento naturale e dimensione soprannaturale, o, se si preferisce, di creare le condizioni perché il divino si possa manifestare.
Il cristianesimo non costituisce un’eccezione, ma semmai la sintesi perfetta di sacro e profano, di divino e umano, a motivo del dogma fondamentale dell’Incarnazione. Se dunque, da un lato, la religione del Dio che si fa carne segna una indubbia discontinuità con il mondo delle tradizioni religiose, dall’altro l’Incarnazione compie e perfeziona la dualità sacro-profano.
Qui tocchiamo un punto estremamente delicato. Una certa corrente teologico-liturgica, che continua ad esercitare una forte influenza nel mondo cattolico, insiste sul fatto che, con l’Incarnazione, la distinzione sacro-profano sarebbe venuta meno, in quanto ormai, nell’umanità di Cristo, il profano è stato ormai congiunto al sacro. Semplificando molto, nulla è più profano, perché tutto è sacro. La ricaduta di questo pensiero nella liturgia ha comportato la progressiva cancellazione di quei confini che costituivano il sacro, ossia di quegli elementi che lo distinguevano dal profano. Si pensi, per esempio, a quanto avvenuto nell’ambito del canto liturgico: non sarebbe più necessario che la liturgia abbia un canto proprio, con testi e melodie specifici, marcatamente distinti dai canti e dalle melodie profane. Tutto ciò che caratterizza una determinata cultura musicale, limitata in un tempo e in uno spazio, può essere assunto nella liturgia: il profano è già sacro.
Questa impostazione ha prolungato la sua ombra anche nella comprensione del culto della Chiesa antica, la quale è stata “battezzata” come la quintessenza dell’assorbimento del profano nel sacro: le case private erano trasformate in luoghi di culto, le mense in altari, per poi ritornare al loro uso quotidiano. Nei vari articoli precedenti, abbiamo cercato di mostrare l’inconsistenza storica di questa ricostruzione, dovuta ad un fraintendimento di testimonianze scritte e archeologiche dei primi tre secoli dopo Cristo; ma questo fraintendimento non di rado è stato animato dalla precomprensione errata dell’evento cristiano, quale, appunto, presunta ragione dell’eliminazione delle categorie religiose tradizionali di sacro e profano. Si tratta però di un errore teologico.
San Paolo rimanda alla Parusia, quando tutto sarà sottomesso al Figlio, il momento in cui Dio sarà tutto in tutti (cf. 1 Cor 15, 26-28), quando cioè tutta la realtà sarà assorbita nel Sacro, in Dio. Il tempo dopo l’Incarnazione continua, invece, a mantenere questa distinzione, sebbene la ricomprenda in modo nuovo: il mito, per esempio, viene superato dalla storia, così che il cristianesimo non conosce miti, ma eventi, i quali tuttavia non sono meno archetipici del mito; e questo perché è la Sapienza divina a “pensare” la storia, più e meglio di quanto una mente religiosa possa pensare un mito. Il sacerdozio non viene abolito, ma perfezionato: il sacerdote diviene veramente “efficace”, in quanto il ministro sacro viene congiunto in modo permanente e ontologico, mediante l’ordinazione, al Dio fattosi carne. I riti sacri, in particolare i sacramenti, divengono realmente segni e strumenti efficaci della grazia, in quanto prolungamento dell’Incarnazione di Cristo, presente e operante nella sua Chiesa.
In sintesi, possiamo dire che l’Incarnazione svela e compie il senso vero e ultimo delle strutture fondamentali della religiosità; e queste strutture, in quanto radicate nell’umanità, non vengono appunto stravolte, ma perfezionate e portate a quel compimento che, senza l’Incarnazione di Dio, sarebbe stata impossibile. Perché l’Incarnazione è il “sì” perenne di Dio all’uomo, il ponte stabile, costruito una volta per tutte, tra Dio e l’uomo. Ma, d’altra parte, l’Incarnazione non muta la condizione dell’umanità nel suo essere ancora viatrice.
Per usare un’immagine didattica, possiamo pensare alle tre fasi dell’umanità in questo modo: la prima, antecedente l’Incarnazione, è il tentativo dell’uomo di varcare l’abisso per toccare ed essere toccato da Dio, da cui egli comprende di venire e a cui desidera tendere; nella seconda, a partire dall’Incarnazione, è Dio che ristabilisce il ponte crollato di comunicazione con l’uomo, rendendo così possibile all’uomo di toccare ed essere toccato da Dio, mediante i riti sacri, che necessitano nella loro essenza della distinzione sacro-profano; la terza, dopo la Parusia, è il trasferimento della realtà in Dio, che sarà tutto in tutti, senza alcuna necessità di mediazione rituale. Ne riparleremo.
Visione d’insieme
Dio è il principio e il fine di ogni cosa. Creando, Egli comunica alle creature l’essere, la «perfezione prima». La «perfezione seconda»: il ritorno delle creature a Dio. Il fine soprannaturale di angeli e uomini. Gesù Cristo, vertice di tutta la creazione, in cui tutta la realtà trova il suo senso.
I luoghi sacri dei primi cristiani, la testimonianza degli apologeti
Già i cristiani pre-Costantino avevano dei luoghi dedicati esclusivamente al culto. La conferma di questa realtà si può trovare negli scritti di apologeti, da Minucio Felice a Lattanzio. E anche nell’Editto di Gallieno, citato da Eusebio di Cesarea.
Una chiesa, un vescovo, un altare: la verità sui primi cristiani
Le testimonianze antiche ci parlano di un unico culto pubblico in ogni città, presieduto dal vescovo, in un edificio sacro, esclusivamente dedicato a questo scopo. Nessuna “chiesa domestica”, quindi, ma un’unica, ampia chiesa per celebrare l’Eucaristia.
Altari mobili = altari profani? Un’equazione sconfessata dalla storia
Gli altari mobili dei primi secoli cristiani non erano destinati a usi profani, come molti hanno ritenuto in epoca contemporanea. Essi erano trasportabili sia per proteggerli da eventuali profanazioni sia soprattutto perché erano legati al vescovo.