A Prato si combatte una guerra fra le mafie cinesi
Un'aggressione alla Digos e a lavoratori immigrati, a Prato, scoperchia una realtà inquietante: sfruttamento e traffici illeciti. Le mafie cinesi si contendono il mercato, lo Stato non ha gli strumenti per reagire.
Di recente, a Prato un gruppo di oltre quindici cittadini cinesi ha aggredito appartenenti alla Digos durante un servizio di ordine pubblico in occasione di una manifestazione sindacale di lavoratori pakistani e di altre nazionalità: la titolare e altre persone hanno colpito i lavoratori, per lo più pakistani, bengalesi e afghani. Il gazebo sindacale è stato distrutto e diversi operai sono finiti in ospedale. La Procura ha aperto un’inchiesta per violenza privata, lesioni, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, con tre indagati. Questi episodi evidenziano come la criminalità organizzata di matrice cinese non sia radicata nel distretto tessile italiano di più rilievo, un nodo strategico dell’economia locale e nazionale.
Via Pistoiese, oggi, è un confine più che una strada. La percorri e capisci subito che Prato non è più la città industriale di un tempo: è diventata qualcos’altro, un organismo nuovo, spinto da un’energia che arriva da molto lontano. I caratteri cinesi appesi alle vetrine sono più numerosi delle insegne italiane; la lingua che senti uscire dai capannoni e dai bar non è toscano.
La trasformazione è cominciata alla fine degli anni Ottanta, quando i primi arrivati — quasi tutti dalla stessa città costiera cinese dello Zhejiang — si sono infilati nelle crepe del vecchio distretto tessile. Prato era stanca, logorata dalle crisi globali. Le sue aziende, storicamente minuscole ma combattive, arrancavano. E proprio lì, in quel momento di fragilità, gli imprenditori arrivati dalla Cina hanno visto uno spazio da riempire. Gli stanzoni abbandonati del Macrolotto 0 — capannoni con laboratorio a piano terra e stanze in alto — erano perfetti: poco costosi, dimenticati da tutti, invisibili. Dentro quelle strutture è nato il nuovo volto della città: macchine da cucire accese notte e giorno, brandine appoggiate al muro, vaschette di cibo sui tavoli da lavoro. Una vita compressa in poche decine di metri, dove si mangia, si dorme e si produce senza soluzione di continuità. L’italiano non serve: tutto è gestito dalla rete interna, dal datore di lavoro, dalla comunità.
Nel frattempo Prato cambiava pelle. Un quartiere dopo l’altro veniva acquistato, affittato, rilevato. I capannoni per cui gli imprenditori locali avevano combattuto per generazioni diventavano proprietà di nuove ditte: tante, piccole, agili, tutte collegate fra loro. In pochi anni, un flusso continuo: da qualche centinaio di aziende si è passati a migliaia. Una crescita che ha travolto la città e l’ha trasformata in una delle più grandi concentrazioni cinesi d’Europa. Il risultato è un paesaggio che non assomiglia a nessun altro in Italia: un’intera porzione urbana in cui la presenza cinese non è più minoranza, è dominante. Una città nella città, con ritmo, regole e logiche proprie.
Nel tempo non si è trattato di un fenomeno migratorio, ma di un insediamento economico strutturato che ha modificato la composizione della città: oltre 7mila imprese, 43mila addetti, una presenza cinese che supera le 30mila persone su meno di 200mila abitanti (per quanto si apprende da fonti aperte, nda). Il tessile pratese resta tra i più grandi d’Europa e vale miliardi di euro di export, ma dentro queste filiere si sono sviluppate anche aree opache: lavoro irregolare, logistica informale, trasporti privati non tracciati, grandi movimentazioni di contante e canali finanziari che sfuggono ai controlli.
In questo ambiente si sono inseriti gruppi criminali che due sentenze definitive hanno già qualificato come organizzazioni mafiose. Strutture capaci di intimidazione, violenza e controllo del territorio, attive tra Toscana, Lazio, Spagna e Francia. Negli ultimi anni il salto è stato evidente: dagli scontri per la produzione di grucce, le si è passati alla logistica, diventata il vero punto di forza di chi vuole dominare i flussi della produzione. Una guerra interna con incendi, pestaggi e omicidi. A febbraio sono stati incendiati tre stabilimenti collegati al cartello che secondo gli inquirenti fa riferimento alla famiglia Zhang, dove figura Zhang Naizhong (assolto dall’unico capo d’accusa nel processo Chinatruck: usura) e il figlio Zhang Di. Fatti che mostrano una violenza ben diversa da quella delle mafie tradizionali, che evitano il clamore.
La Procura guidata da Luca Tescaroli – magistrato che ha affrontato Capaci, la Banda della Magliana e Mafia Capitale – descrive questa come una fase simile, nelle proporzioni, ai momenti di espansione dei vecchi clan italiani. Le imprese cinesi presenti a Prato hanno filiali in altre regioni e all’estero, ma il centro è qui. I cognomi più diffusi in città sono Chen, Hu e Lin. Gori, il primo italiano, è al dodicesimo posto. Nel 2013 il 67% delle imprese con titolare straniero era cinese. Oggi il distretto produce il 7,5% dell’export dei distretti toscani e il 4,5% del Pil regionale.
I gruppi criminali operano anche come piattaforma finanziaria per altre mafie: gestiscono trasferimenti internazionali di denaro con sistemi di compensazione e token digitali, collaborano con ’ndrangheta, camorra e sacra corona unita, e hanno sfruttato per anni il Regime 42 per far evaporare l'IVA attraverso società fantasma e triangolazioni fittizie. Sul territorio si registra anche un aumento delle denunce: nei primi mesi dell’anno oltre 90 lavoratori – cinesi, pakistani, bengalesi e nordafricani – hanno denunciato sfruttamento. È emerso il primo collaboratore di giustizia cinese, un imprenditore minacciato dopo aver rifiutato un accordo, e anche il figlio dell’uomo indicato come ex vertice si è rivolto alla Procura denunciando minacce. È un segnale che qualcosa si muove, ma il sistema di protezione per testimoni stranieri è insufficiente: cambiare identità è impossibile senza il via libera del Paese d’origine e questo blocca l’inserimento in programmi protetti.
Il caso più emblematico resta il processo China Truck, iniziato nel 2010 e ancora segnato da ostacoli: interpreti irreperibili o inattendibili, intercettazioni inutilizzabili, ritardi continui. L’unico imputato assolto è stato proprio Naizhong per il reato contestato, mentre il resto del procedimento è ancora sospeso tra rinvii e difficoltà strutturali. La Procura ha aperto un fascicolo per accertare se dietro queste sparizioni ci siano pressioni o interferenze. Nel frattempo, la città continua a muoversi in un equilibrio fragile tra un distretto che funziona e un sottobosco criminale che controlla pezzi fondamentali della filiera. Ne abbiamo parlato con Salvatore Calleri, presidente della Fondazione Antonino Caponnetto e consulente della Commissione Parlamentare Bicamerale Antimafia.
In che modo valuta che la “guerra delle grucce” si sia evoluta in una “guerra della logistica”?
Le prime tracce della guerra delle grucce risalgono al 2014 e man mano la situazione è andata peggiorando arrivando agli accadimenti del 2024-2025 ossia agli omicidi, i ferimenti ed agli attentati incendiari. Si è quindi passati in contemporanea ad una estensione tematica ed il passo dalle grucce alla logistica e poi a tutto il resto è stato breve. Rispetto al periodo di Chinatruck non ci sono differenze significative se non il fatto che è scoppiata una guerra nella quale si sa chi sono gli attaccati ma non gli attaccanti. Guerra che ha toccato l'Italia, la Spagna, la Francia e la Germania.
Quanto incide sul potere delle organizzazioni quello che lei chiama il “controllo economico e logistico” sulla produzione tessile e sui trasporti?
Incide moltissimo perché la logistica è fondamentale per tutti gli affari leciti ed illeciti. Chi controlla la logistica è avvantaggiato.
Lei ha sostenuto che a Prato le mafie straniere (in particolare quelle cinesi) non siano un fenomeno marginale ma strutturale: cos’è cambiato negli ultimi anni che conferma questa tendenza?
A Prato la mafia cinese e più in generale il mondo della criminalità sono oramai un fenomeno strutturale che movimenta denaro e potere, in grado anche di influenzare le elezioni. Non sono ovviamente l'unica forma di criminalità presente e sicuramente esistono integrazioni tra forme mafiose di nazionalità diversa. Da numerose indagini è emerso che le triadi sono in grado di spostare soldi da un capo all'altro del mondo sia in contanti che tramite token digitali offrendo tale servizio alle organizzazioni italiane con le quali siedono probabilmente al tavolo di concertazione.
Qual è lo strumento prioritario che lo Stato e le istituzioni dovrebbero adottare subito per contrastare questa criminalità organizzata “moderna”?
Le norme de facto in Italia le abbiamo. Dovremmo rinforzare la norma sui collaboratori ed i testimoni di giustizia stranieri e creare a Prato una sezione distaccata della DDA (Direzione Distrettuale Antimafia, ndr). Richieste fatte dal Procuratore Tescaroli e che la Fondazione Caponnetto appoggia. Per il resto dobbiamo migliorare le nostre capacità tecnologiche siamo indietro rispetto ad altri stati tipo i Paesi Bassi che sebbene abbiano scoperto in ritardo l'esistenza della mafia nonostante gli allarmi hanno investito in capacità tecnologica riuscendo a bucare le difese tecnologiche dei narcos.

