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L'EDITORIALE DI OGGI

Referendum, perché respingerli

Non sono in gioco i "princìpi non negoziabili" ma ci sono ottime ragioni per evitare che vincano i "sì". E soprattutto sull'acqua è importante una battaglia culturale per non cadere in tranelli ideologici.

Editoriali 09_06_2011

Referendum, che fare?

Chi ha seguito La Bussola Quotidiana in questi giorni sa quale sia il nostro orientamento e anche le ragioni. Lo ribadiamo subito: siamo contrari a questi referendum e crediamo che la cosa migliore sia non andare a votare per evitare che vincano i “sì”. Detto questo va anche precisato che in gioco non ci sono “princìpi non negoziabili”, per cui una diversità di vedute è certamente legittima.

Il che però non vuol dire che non si debba almeno cercare di capire cosa c’è davvero in gioco, e non giudicare sull’onda dei luoghi comuni quando non della disinformazione, magari tirando in ballo a sproposito la dottrina sociale della Chiesa. Ed è questo che vorremmo cercare di chiarire.

Anzitutto la questione del non voto. Anche il presidente della Repubblica è intervenuto nei giorni scorsi parlando, a proposito della sua scelta personale, di un diritto-dovere di voto. Analogamente hanno fatto alcuni esponenti del mondo cattolico. Si tratta di un’affermazione equivoca e anche grave, perché per il referendum, Costituzione alla mano (art. 75), non c’è alcun “dovere civico”, ma solo un diritto di partecipare. Di più, lo stesso articolo 75 della Costituzione dà al non voto un valore “positivo” prevedendo un quorum (il 50%) al di sotto del quale il referendum è annullato. Quindi il non voto, al referendum, ha la stessa dignità del voto ed è considerata una scelta chiara di disapprovazione dei quesiti referendari.

La paura del nucleare. Siamo più volte intervenuti sul tema del nucleare, all’indomani dell’incidente di Fukushima e anche con un editoriale nei giorni scorsi. Vale però la pena riprendere brevemente alcune questioni particolarmente sentite, a cominciare dalla sicurezza. Visto che è una parola sulla bocca di tutti, la domanda che sarebbe opportuno farsi è: in che modo definiamo la sicurezza, in che modo la misuriamo? Se prendiamo in esame la mortalità effettiva, legata alle diverse fonti energetiche, scopriamo che l’energia nucleare è la più sicura in assoluto, con una mortalità – dalla progettazione alla realizzazione, dalla produzione di energia fino agli incidenti – vicinissima allo zero. Questo non è un caso perché essendo alti i rischi derivanti da possibili incidenti nucleari, molto più alti sono i livelli di sicurezza degli impianti e molto più bassi i rischi di incidente. Se poi qualcuno pensasse che c’è la possibilità di fonti energetiche a rischio zero o a impatto zero, costui sarebbe vittima di una pericolosa illusione. Perché il rischio è insito in ogni azione umana, è parte della natura stessa dell’uomo: anche attraversare la strada è un rischio (e sappiamo che i pedoni investiti sono in Italia migliaia ogni anno); perfino stare chiusi in casa comporta dei rischi (i 27mila morti del terremoto in Giappone erano in stragrande maggioranza persone che stavano in casa).

Piuttosto, le decisioni sulle azioni da intraprendere dipendono sempre da un calcolo tra rischi e benefici, e questi devono considerare tutti i fattori. Per stare al nucleare, il problema della sicurezza non si risolve semplicemente discutendo sugli impianti: ad esempio, quanto costa in termini di sicurezza essere totalmente dipendenti da paesi stranieri, spesso guidati da regimi poco affidabili? Il dramma in corso in Libia, con tutte le ripercussioni sul piano energetico, dovrebbe pur insegnare qualcosa. E ancora: visto che la rinuncia al nucleare significa dipendere maggiormente dai combustibili fossili (l’idea che allo stato attuale solare ed eolico siano un’alternativa è pura fantasia), quanto costa in termini di sicurezza il maggiore inquinamento derivato dall’uso del petrolio? E si potrebbe continuare. Non stiamo dicendo che il nucleare sia la soluzione di tutti i problemi energetici, sarebbe una sciocchezza. Ma ogni paese cerca di costruire la propria sicurezza – data anche da un approvvigionamento energetico continuo, duraturo, economico – con un mix di fonti che permetta la massima flessibilità e di non essere messi in ginocchio dal venir meno – temporaneo o meno - di una fonte.

La politica energetica di un paese, inoltre, è una questione di vitale importanza che non può essere messa ai voti in un referendum popolare in cui si vota “di pancia”, sull’onda di reazioni emotive a fatti che, peraltro, vengono amplificati e distorti per fini propagandistici. Da ultimo, su questo tema, checché ne dicano Cassazione e Consulta, il referendum è diventato inutile visto che il governo sul tema aveva già fatto harakiri, rimangiandosi un impegno preso con gli elettori e rimandando tutto, se va bene, a dopo le prossime elezioni.

Legittimo impedimento. A essere proprio sinceri non è un tema che ci appassioni molto. Si può legittimamente ritenere questa una legge imperfetta o sospetta di essere “ad personam”, ma in fondo è anche un modo per mettere una toppa a una grave lacuna creatasi nel nostro ordinamento a seguito di Tangentopoli. Nell’occasione, infatti, si fece saltare l’istituto dell’immunità parlamentare (previsto dalla Costituzione) che doveva garantire l’autonomia dei politici nel quadro di un rigido bilanciamento dei poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario). Soltanto un odio ideologico può impedirci di vedere come l’equilibrio tra i poteri dello Stato sia totalmente saltato a tutto vantaggio del potere giudiziario: ormai i giudici intervengono su tutto e non soltanto negli affari di Berlusconi: legiferano a colpi di sentenze, decidono le maggioranze parlamentari (anche l’ultimo governo Prodi fu fatto fuori da un caso giudiziario), esprimono parere preventivo sulle iniziative in Parlamento. In prospettiva il problema non è salvare o meno Berlusconi, ma salvare la democrazia. Non sarà la legge sul legittimo impedimento a farlo, ma eliminarla significa spianare la strada davanti a chi vuole governare senza passare al vaglio degli elettori.

Acqua “bene comune”. E’ questa la faccenda più importante e “rischiosa” dal punto di vista culturale. Non entriamo qui nelle questioni puramente tecniche, peraltro già affrontate efficacemente dal nostro Paolo Togni. Più rilevante è l’aver visto associazioni cattoliche, preti e perfino vescovi agitarsi e usare le messe domenicali per fare propaganda per il referendum.  Al punto che l’altra sera alla trasmissione tv Ballarò, l’onorevole Rosi Bindi ha avuto buon gioco a esaltare la grande spinta del mondo cattolico a questi quesiti.
Ora però, bisogna intanto chiarire che il sostegno viene solo da “certi” settori del mondo cattolico, peraltro guidati dai soliti noti, quelli che mai vedi in piazza o gridare dal pulpito contro l’aborto e l’eutanasia o a sostegno della famiglia. Anzi, magari sono fra quelli che incoraggiano i giovani alla convivenza per conoscersi prima di sposare, tanto per essere moderni.
Ma anche coloro che non appartengono a queste frange ideologizzate sono abbastanza confusi dalle parole d’ordine e dagli slogan usati. Urge perciò chiarire alcune questioni essenziali:

1. Che l’acqua sia un “bene comune” non è affatto in discussione; la legge contestata non privatizza la risorsa acqua, semplicemente cerca di introdurre criteri di buona ed efficiente gestione nella distribuzione di questa risorsa.

2. Tra le tante tesi bizzarre sentite in questo periodo c’è anche quella secondo cui un bene fondamentale deve essere gratuito. Si agita infatti lo spettro di cattivi e profittatori privati che potrebbero negare l’acqua a chi non ha i soldi per pagare. A parte il fatto che noi paghiamo l’acqua anche adesso, non si capisce perché un bene primario dovrebbe essere anche gratuito. Anche il pane è un bene fondamentale, ma ciò non toglie che si vada dal fornaio a comprarlo. Anche quello all’informazione è un diritto di base, eppure non protestiamo perché dobbiamo pagare un giornale. O forse non abbiamo diritto a scaldarci d’inverno? Eppure paghiamo il riscaldamento delle case. Perché sarebbe scandaloso pagare anche l’acqua per il suo valore? Oltretutto è proprio l’attuale sistema inefficiente che non solo permette lo scandalo di uno spreco d’acqua a causa della cattiva manutenzione della rete idrica (e la Puglia di Nicki Vendola è tra gli esempi peggiori), ma addirittura nega l’accesso all’acqua di fasce non marginali di popolazione. In Sicilia, ad esempio, soprattutto d’estate in diverse zone l’acqua è razionata, disponibile per poche ore al giorno. E’ questo il vero scandalo.

3. Si continua con questa falsa contrapposizione pubblico-privato, dove per pubblico si intende solo ciò che è statale. In realtà la definizione “pubblico” va intesa come riferita al destinatario del servizio non a chi lo fornisce. In altre parole è “pubblico” ciò che è destinato e aperto alla cittadinanza, a prescindere da chi fornisce il servizio, che può essere un soggetto privato, un ente statale o una società mista. La questione dell’acqua non è diversa: allo Stato spetta garantire il servizio e assegnarne la gestione a chi meglio sa garantire qualità, efficienza e costi più bassi. E’ davvero curioso che questi concetti elementari debbano essere spiegati al mondo cattolico, che da decenni combatte la stessa battaglia nel campo dell’educazione. La falsa contrapposizione pubblico-privato è infatti la stessa che viene proposta quando si parla di scuole paritarie e scuole statali. Come se le scuole paritarie non fornissero un servizio pubblico. Come fanno certi cattolici a non capire che negando la possibilità a società private o miste di intervenire nella gestione di un servizio pubblico si fa la stessa battaglia di chi pretende che la scuola sia soltanto statale? Oppure, in fondo in fondo, costoro credono che anche la scuola paritaria sia da eliminare?