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LETTERE IN REDAZIONE

Rai, meglio protestare che non pagare

Di fronte a programmi che offendono la famiglia, l'obiezione fiscale avrebbe dei motivi, ma rischia di essere un boomerang. Molto più efficace scrivere o telefonare protestando per gli specifici programmi contestati. Ecco come fare.

- Gay Uno si merita il nostro canone? di T. Scandroglio

Caro direttore,

Penso che tanti lettori siano d'acordo sul vostro rilievo che il canone RAI non andrebbe pagato. Ma essendo iscritti alla RAI da anni, come ci si regola? Forse esiste qualche accorgimento che però ignoro. Se potete suggerirlo a me e a tanti altri lettori che la pensano come voi, sarebbe cosa ottima. Grazie.

Bruno Mardegan - Milano

Tommaso Scandroglio ha straragione: la RAI è un immondezzaio. No che non conviene pagare il canone! Ma come evitarlo, se l'acquisizione è affidata all'Agenzia delle Entrate e basta il semplice possesso non dico di un televisore, ma del solo computer per autorizzarla? E se qualcuno osasse chiamare all'obiezione fiscale non verrebbe subito ammanettato da magistratura democratica, e rinchiuso buttando le chiavi a mare?
E così domani, ch'è ormai oggi, ultimo giorno utile, sarò costretto a pagare ingoiando l'ennesimo rospo. Cambierà mai questo vergognoso stato di cose?
Per inviare una protesta contro quel programma, a chi indirizzarla?
Grazie.  

Giuseppe Zana - Verona

Caro direttore,

In relazione all'interessante articolo di Tommaso Scandroglio, vorrei precisare che l'obbligo di pagamento del canone Rai riguarda anche chi, come la mia famiglia, ha deciso di non avere un apparecchio televisivo. Infatti, non solo il canone va pagato da chiunque possieda una tv o un computer, ma anche da chi ha, ad es. soltanto un videocitofono, in quanto potrebbe essere convertito in televisore.
Purtroppo non ho la possibilità di assoldare un avvocato, ma credo che tale estensione dell'obbligo sia un vero sopruso, soprattutto in relazione al fatto che, come esistono le pay tv, allo stesso modo la rai dovrebbe farsi pagare da chi effettivamente cerca i suoi programmi.
Grazie per il vostro prezioso servizio,

Roberta

Risponde Tommaso Scandroglio:

Queste sono solo un saggio delle lettere che sono arrivate in redazione e direttamente al sottoscritto dopo la pubblicazione dell’articolo “Gay Uno si merita il nostro canone?” di mercoledì 30 gennaio. In tutte si esprime indignazione e frustrazione per la trasmissione oggetto del pezzo. Alcuni poi domandano se è opportuno a questo punto non pagare più il canone. Proviamo a rispondere.

Il pagamento del canone è un obbligo di legge. Pensate che noi sborsiamo alla Rai 113,50 euro perché così fu deciso nel 1938 con un decreto regio che in tal modo disciplinava la materia: “Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento” (R.D.L. 21 febbraio 1938, n. 246 art. 1).

Il regio decreto si riferisce esplicitamente alle radioaudizioni e quindi agli apparecchi radio, perché al tempo c’era in giro sì qualche rarissimo televisore – commercializzati in Italia sin dal ’36 – ma le trasmissioni televisive erano ancora al di là da venire (10 aprile 1954). E dato che il regio decreto n. 1067/1923 affidava allo Stato l’esclusiva sulle trasmissioni radio – che a sua volta le dava in concessione alla Uri (poi dal 1927 Eiar e infine Rai, che sta per Radio audizioni italiane) – questo stava a significare che chi possedeva una radio non poteva che ascoltare le frequenze d’onda dell'Eiar. Dunque da qui la doppia equivalenza: possesso uguale ascolto trasmissioni Eiar, uguale canone. E fin qui forse nulla da obiettare.

Ma i tempi cambiano e arriva la televisione. Qualcuno a questo proposito potrebbe puntualizzare: il regio decreto si applicava solo alla radio. Ahimè no. Infatti – ragionando come un leguleio, ma purtroppo dobbiamo farlo – il televisore oltre ad essere un apparecchio che trasmette immagini è anche una radio e quindi cade sempre sotto la scure imposta dal decreto regio del ’38. Non così per computer, tablet e smartphone: lo ha confermato la stessa Rai in un comunicato stampa del 21 Febbraio 2012.

Altra obiezione che ci ha fatto qualche lettore: oggi avere un apparecchio televisivo non significa più che necessariamente guardiamo le trasmissioni della Rai dato che il bouquet televisivo è ormai variegatissimo, con infinite reti private. Dunque, perché pagare?

La Corte di Cassazione ha tagliato corto stabilendo che l’imposta “non trova la sua ragione nell'esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l'Ente Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, dall'altro, ma costituisce una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo”(Sentenza del 20 novembre 2007 n. 24010). In soldoni ha affermato: cosa dice la legge del ’38? Che devi pagare se sei in possesso di un televisore. Punto. Se poi non lo usi, o lo usi per metterci dentro i pesciolini come fanno vedere nella pubblicità o lo accendi per vedere Canale 5, allo Stato non importa un fico secco. È un po’ come il bollo auto, sostengono i giudici: è un’imposta da pagare per il possesso della vettura, anche se la tieni in garage (v. anche Corte Costituzionale Sentenza del 26 giugno 2002 n. 284).

La risposta dei giudici non convince. Infatti se andiamo a leggere proprio l’art. 1 del Regio decreto a cui abbiamo fatto cenno prima scopriamo che il testo di legge parla esplicitamente di “canone di abbonamento” e l’abbonamento rimanda ad un servizio, cioè ad un uso, non al mero possesso. Poi nel ’38, come abbiamo precisato, dato che lo Stato aveva l’esclusiva delle trasmissioni, avere l’apparecchio presumeva che tu ascoltassi la radio e che tu ascoltassi solo l'Eiar, dato che questa aveva il monopolio. Ma quella situazione di esclusiva è chiaramente e definitivamente tramontata.

Quindi tutt’al più i proventi del canone dovrebbero essere suddivisi per share a favore di tutte le reti, abbassando proporzionalmente la quota di pubblicità in esse presenti.

L’argomento poi di qualche lettore che pagare per vedere spazzatura è ingiusto, purtroppo è un po’ fragilino, seppur nei suoi fondamenti sia comprensibile. Fragilino perché si potrebbe rovesciare il punto di vista: la Rai è anche fiction sui santi, la Santa Messa alla Domenica, l’Angelus del Papa e la Via Crucis del Venerdì Santo. Tutte trasmissioni che – in parallelo – legittimerebbero l’ateo a non pagare il canone.

Il vero nocciolo della questione, come hanno sottolineato alcuni lettori, è invece un altro: se lo chiamiamo servizio pubblico significa che deve essere al servizio del bene comune. Quindi non tutto si può trasmettere, non tutto è rappresentabile. La funzione educativa della Rai è perciò imprescindibile dalla sua mission imprenditoriale. Il criterio per mandare in onda certe cose non è l’indice di gradimento, ma il bene dei telespettatori.

Che fare dunque? L’obiezione fiscale, seppur giustificata giuridicamente per le argomentazioni che prima abbiamo offerto, non è opportuna dato che i controlli ci sono e sono capillari. E poi viene da domandarsi quanto potrebbe essere incisiva tale obiezione al fine di far cambiar rotta alla Rai, la quale a fronte di una diminuzione di entrate penserebbe che è colpa della crisi o della furberia degli italiani e non certo colpa di Domenica In.

Ben più efficace è invece protestare per iscritto con la Rai. Ecco l’indirizzo a cui scrivere: http://www.scriverai.rai.it/eService_ita/start.swe?SWECmd=Start&SWEHo=www.scriverai.rai.it Oppure potete telefonare al 199.123.000.

Per paradosso hanno più peso una decina di lettere che qualche decina di migliaia di euro in meno nelle tasche della Rai. Questo proprio perché un telespettatore arrabbiato e insoddisfatto è un serio pericolo per lo share, l’unico e vero dio per le aziende televisive, perché cartina di tornasole degli umori della collettività. Infatti dietro ad un telespettatore infuriato con alta probabilità ce ne sono altre centinaia di migliaia. E quelli di Viale Mazzini lo sanno bene.