Pane, polenta e perdono: la cucina nei Promessi Sposi
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Nella cristianissima opera di Manzoni ci sono più osterie che chiese: di piatto in piatto al lettore è servito il racconto della Lombardia del Seicento, delle sue condizioni sociali e filosofie di vita che si intrecciano alla cultura gastronomica.

Osterie, palazzi nobiliari, case popolane sono il proscenio in cui Manzoni solletica il palato del lettore, proponendo prelibate pietanze e cibi tipici delle mense povere. Chiunque si avventuri per la prima volta nella lettura de I Promessi Sposi non può che rimanere colpito dal fatto che proprio quel testo che rappresenta pienamente la genialità del cristianesimo riservi poco spazio alle chiese, mentre ne dedica tanto alle osterie. Restano impresse nella mente di tutti: quella del paese dei due giovani fidanzati, in cui Renzo dà appuntamento a Tonio e Gervaso per organizzare il matrimonio di sorpresa; quella di Milano, in cui il giovane si ferma a mangiare e a dormire la sera del tumulto di San Martino; quella di Gorgonzola, in cui Renzo si rifocilla per poco tempo, il 12 novembre, prima di fuggire verso l’Adda.
È sempre Renzo a trovarsi nell’osteria, verso sera, dopo il tramonto e al termine di una giornata particolarmente movimentata e drammatica. Lucia non vi compare mai. Gli abitatori di quelle taverne sono scaltri, furbi, ingannatori, sanno parlare o tacere quando è opportuno, osservano e pongono domande per raggiungere l’obiettivo prefissato. All’uomo del Seicento il mondo appare proprio come un’osteria. Il poeta spagnolo Fernandez de Ribera (1579–1631) descrive l’osteria come specchio dell’esistenza: un universo popolato da persone che arrivano e altre che partono, in apparenza autentiche e non pericolose, ma di fatto spesso ingannatrici e teatranti, spaccone e ruffiane. Quella che all’apparenza potrebbe sembrare una locanda pulita e sicura si rivela, ad un osservatore più acuto, una taverna sporca e insicura.
Che cibi vengono serviti nelle osterie del romanzo? Nell’osteria del paese di Renzo e Lucia si servono delle polpette «prodigiose, che farebbero resuscitare un morto». Si tratta probabilmente dei mondeghili (termine che deriva dallo spagnolo albondiga, che a sua volta ha radici arabe): piatto tipico della cucina milanese, nato come ricetta di recupero per riutilizzare gli avanzi di carne cotta, impreziositi da mortadella di fegato, pane raffermo ammollato nel latte, uova, formaggio, prezzemolo, noce moscata, sale, pepe, burro e pangrattato. Nel Seicento, le polpette venivano leggermente schiacciate e fritte nel burro fino a doratura.
All’Osteria della Luna Piena, a Milano, a Renzo viene servito lo stufato: piatto rustico, cotto lentamente, servito con pane. Manzoni non ci racconta come sia cucinato. Possiamo immaginare che sia stato preparato con tagli di carne povera, marinata nel vino rosso, profumata e aromatizzata con alloro, chiodi di garofano, cipolla, sedano e carota. Il sugo di cottura è arricchito con pancetta sciolta e burro. Una volta cucinato, lo stufato si accompagna sempre a fette di pane rustico, per raccogliere il sugo. Piatto economico ma nutriente, lo stufato era ideale per le osterie, perché si poteva tenere in caldo a lungo. Simboleggia la cucina popolare milanese, fatta di recupero e di sapienza contadina: il perfetto contraltare al banchetto aristocratico tenuto nel palazzotto in cui don Rodrigo festeggia con arroganza e protervia, ostentando superiorità e boria.
All’Osteria della Luna Piena lo stufato è accompagnato dal vino: non solo simbolo di sincerità, ma anche di libertà disinibita, sfrenata e libera da ogni coercizione. Ne sa qualcosa Renzo, che rischia addirittura di essere condannato a morte dopo aver rivelato il proprio nome all’osteria, quando ha alzato troppo il gomito.
Anche le case popolane sono l’adeguata ambientazione per introdurci alla vita e alla condizione sociale dei popolani del Seicento. Memorabile è la scena del sesto capitolo, in cui Renzo si reca da Tonio per chiedergli di partecipare al matrimonio di sorpresa. Tonio, inginocchiato vicino al focolare, sta mescolando lentamente una polenta di grano saraceno, descritta come «piccola» e «bigia» (cioè grigiastra): aggettivi che evidenziano la modestia della quantità e l’umiltà degli ingredienti. Tonio gira la polenta con un «matterello ricurvo» dentro un «paiolo» di rame. La polenta cuoce sulle ceneri calde, diffondendo un aroma che Manzoni non descrive, ma che il lettore può immaginare. Attorno al paiolo, i figli osservano in silenzio, attirati dal rumore del mescolare e sperando che basti per sfamare tutti.
Siamo nella Lombardia del 1628, in un’epoca segnata dalla carestia e dall’instabilità politica ed economica. La polenta di grano saraceno rappresenta un alimento di base, nutriente ma umile: la polenta «gialla» di mais arriverà più tardi, diventando il piatto simbolo della regione. Il grano saraceno, coltivato nelle vallate alpine e nelle zone montane poco fertili, è l’ancora di salvezza per molte famiglie contadine: non è solo un alimento, ma anche simbolo di sopravvivenza, radicamento nella terra, identità e tradizione contadina. La sua preparazione lenta e condivisa riflette un modo di vivere fatto di pazienza, fatica e legami familiari profondi. La polenta bigia diventa protagonista nel romanzo, segno della resistenza di chi vive ai margini, di chi affronta la fame con dignità e con quel senso di solidarietà domestica che la fame stessa tende ad amplificare. Il lettore non si commuove perché la polenta è poca, ma perché la scena parla di un mondo in cui anche la povertà conserva una sua misura, una sua compostezza. In un tempo in cui il cibo è bene scarso e conteso — basta ricordare la rivolta del pane che Renzo osserva a Milano — la polenta rappresenta il quotidiano di chi non insorge, ma sopporta. In questo scenario scarno, emergono una bellezza umana, che non ha bisogno di ornamenti, e una dignità composta.
Il gesto quotidiano del cucinare diventa un rituale carico di significato. Il matterello ricurvo, il paiolo di rame sulle ceneri, la polenta che prende forma lentamente: ogni elemento è accuratamente scelto per costruire un momento di sospensione, in cui il tempo sembra rallentare. Attorno, i figli osservano in silenzio. Non parlano, non si lamentano: scrutano con fame, ma anche con rispetto. Quel paiolo rappresenta la speranza di un pasto, di un momento di sollievo dalla miseria. Il focolare della casa di Tonio, simbolo di protezione e unità domestica, si carica qui di un valore quasi sacro: è luogo di coesione, condivisione, speranza.
La scelta del grano saraceno racconta un territorio, una cultura gastronomica, ma anche una filosofia della vita: quella del «poco ma buono», del «meglio condividere che sprecare», dell’etica del pane che attraversa l’intero romanzo. Non dimentichiamo che anche il pane della Provvidenza, raccolto da Renzo durante la rivolta di Milano, assume lo stesso significato di giustizia e comunione; mentre il pane del perdono, donato da fra Cristoforo a Renzo e Lucia al lazzaretto di Milano, è simbolo di memoria, misericordia e redenzione: quel pane ha ricordato per tutta la vita al frate l’assassinio commesso e la grazia del perdono ricevuto; per i due fidanzati, sarà un perenne ricordo della misericordia vissuta, da trasmettere con umiltà e gratitudine al mondo intero.
Il cibo nei Promessi Sposi racconta spesso anche le differenze sociali. Trasferiamoci per un momento al palazzotto di don Rodrigo: i ricchi banchettano con capponi e stufati, esibendo sfarzo e superiorità. Il contrasto tra l’opulenza ostentata di don Rodrigo e la miseria composta di Tonio diventa uno strumento narrativo potentissimo per denunciare la disuguaglianza e valorizzare la forza silenziosa dei più umili.
Nello stesso palazzotto di don Rodrigo si svolge infine il pranzo di nozze di Renzo e Lucia. Ma cosa mangiano i due novelli sposi? Manzoni, che ci ha descritto con cura le pietanze dei popolani, cariche di valore simbolico, non ci racconta il menù del pranzo più importante della storia. E forse non lo fa proprio perché ciò che conta non è la ricchezza del cibo, ma la presenza del pane del perdono, segno discreto ma potente dell’Eucaristia: è questo il vero nutrimento che accompagnerà Renzo e Lucia nella loro vita coniugale. Non è un banchetto a fare un matrimonio, ma il senso condiviso della grazia ricevuta.
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