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MAGISTRATURA

Nuova offensiva giudiziaria, toghe in campagna elettorale per il referendum

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Irrigidimento corporativo. Così si spiega la stagione di rinnovato attivismo delle toghe, con processi politici clamorosi come in una nuova Mani Pulite. Il tutto in vista del referendum che può riformare la magistratura.

Politica 04_12_2025
Sciopero dei magistrati contro la riforma costituzionale (ImagoEconomica)

In questa fase politica, segnata dall’avvicinarsi del referendum sulla riforma della giustizia, si registra un clima di crescente tensione fra potere giudiziario e potere politico, una tensione che molti osservatori leggono come la manifestazione di un protagonismo accentuato da parte di alcune articolazioni della magistratura, preoccupate dalle possibili ricadute che un esito favorevole alla riforma potrebbe avere sugli attuali equilibri interni alla categoria.

L’impressione diffusa è che il dibattito istituzionale si sia trasformato in una sorta di campagna permanente, nella quale anche il mondo giudiziario, solitamente chiamato a mantenere un riserbo rigoroso, finisce per apparire coinvolto in una competizione simbolica per il ruolo di custode ultimo della legalità.

Le inchieste che in questi mesi hanno attirato l’interesse dell’opinione pubblica, da quelle milanesi sull’urbanistica ai dossier sul risiko bancario fino alle attenzioni particolarmente serrate verso alcune formazioni politiche come la Lega di Salvini, vengono lette da una parte del Paese come segnali di un attivismo destinato a condizionare il clima pre-referendario, una sorta di controcanto giudiziario alle promesse che caratterizzano le campagne elettorali tradizionali.

Se la politica, nei momenti decisivi, cerca consenso moltiplicando annunci, gesti simbolici o misure ad effetto, la magistratura, secondo questa lettura critica, alza il volume della sua presenza pubblica attraverso iniziative che, al di là del loro merito tecnico, finiscono inevitabilmente per incidere sul contesto politico.

A rendere ancora più teso il quadro contribuisce il tema della carriera dei magistrati, che rappresenta uno dei punti centrali della riforma. I numeri forniti dal Ministro della Giustizia in risposta a un’interrogazione parlamentare restituiscono un’immagine che molti considerano la prova più tangibile dell’esigenza di intervenire: tra l’inizio del 2021 e l’autunno del 2025 sono stati valutati 9.797 magistrati ai fini della progressione professionale e circa il 98% ha ricevuto un giudizio positivo.

Nel 2021 le valutazioni favorevoli hanno toccato il 99,47%, mantenendosi negli anni successivi sempre al di sopra del 98%, con una quota di giudizi negativi o non positivi oscillante fra lo 0,5 e l’1,3% del totale. Le cifre riportate mostrano una costanza impressionante: 2.103 valutazioni nel 2021 con 2.092 positive, 2.604 nel 2022 con 2.584 positive, 2.210 nel 2023 con 2.197 positive, 1.658 nel 2024 con 1.639 giudizi favorevoli e 1.222 valutazioni nel 2025 con 1.206 esiti positivi.

Un andamento definito da molti come “bulgaro”, perché suggerisce un sistema nel quale il giudizio positivo appare quasi una formalità, una sorta di promozione automatica che solleva interrogativi sulla reale capacità valutativa degli organi competenti e alimenta dubbi sul peso delle correnti e sulla trasparenza delle selezioni per i vertici. In questo clima, la riforma della giustizia non è più percepita solo come un intervento tecnico ma come un passaggio destinato a incidere sugli equilibri del potere, e proprio per questo osservatori e commentatori rilevano un irrigidimento delle toghe, interpretato come la reazione corporativa di una categoria che teme di vedere ridimensionato il proprio ruolo.

Il parallelo con la stagione di Mani pulite ricorre spesso, non tanto per l’analogia delle vicende giudiziarie quanto per la sensazione di un rinnovato slittamento del baricentro della vita pubblica verso le procure, una dinamica che in passato si è manifestata in momenti di crisi politica e che oggi, invece, emerge in un contesto di relativa stabilità. Ed è proprio questa stabilità, sostengono i critici, a rappresentare un problema per chi ritiene di dover compensare con l’iniziativa giudiziaria quella che viene percepita come un’eccessiva solidità del quadro di governo.

Ne deriva un intreccio complesso, dove la fisiologica dialettica fra poteri rischia di trasformarsi in un braccio di ferro permanente, con il rischio che il referendum diventi non solo un passaggio istituzionale ma il terreno simbolico di una competizione più ampia, nella quale ciascun attore cerca di preservare il proprio spazio di influenza.

In questo scenario così carico di tensioni, il nodo centrale resta sempre lo stesso: il rapporto fra legalità, responsabilità e potere, un rapporto che la riforma della giustizia intende ridisegnare e che proprio per questo accende le reazioni di chi teme che il cambiamento possa toccare prerogative consolidate.

L’impressione è che, al di là dei singoli casi e delle iniziative giudiziarie che animano il dibattito quotidiano, lo scontro vero si giochi sulla legittimazione e sui confini del ruolo dei magistrati, una questione che accompagna la storia italiana degli ultimi decenni e che torna ciclicamente ad accendersi ogni volta che si tenta di intervenire sulle regole del sistema.