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ISLAM

Non solo Reyhaneh. L'Iran è un inferno per tutti

L'esecuzione di Reyhaneh Jabbari ha commosso il mondo. Eppure pensavamo che l'Iran fosse un Paese civile, specie dopo che è stato eletto il "riformatore" Hassan Rouhani. Le impiccagioni sono quasi due al giorno.

L'ultima lettera di Reyhaneh Jabbari

Esteri 29_10_2014
Impiccagioni di massa in Iran

In confronto ai crimini massicci e altamente mediatici dell’Isis, l’Iran rischia di apparire come un Paese civile. Tornando da Teheran, il 20 ottobre, Emma Bonino dichiarava a La Stampa che la Repubblica Islamica è un partner preferibile rispetto alla monarchia saudita e alla coalizione di Stati arabi sunniti. Rispetto a questi ultimi, diceva l’ex ministro degli Esteri, «Dobbiamo invece considerare una differenza fondamentale: i sunniti vogliono un islam politico, gli sciiti in Iran hanno scelto la via delle elezioni, una forma di democrazia islamica. È questo, certo, che terrorizza le monarchie del Golfo». Cinque giorni dopo l’intervista alla Bonino arrivava la notizia dell’impiccagione della giovane Reyhaneh Jabbari, colpevole di essersi difesa da un tentativo di stupro uccidendo il suo aggressore. Quell’esecuzione, che ha commosso il mondo, è servita almeno ad aprire uno squarcio nel buio dell’orrore quotidiano che si consuma all’interno della “democrazia islamica” iraniana.

L’impiccagione di Reyhaneh non è un caso raro, non è un fulmine a ciel sereno e non rappresenta alcuna improvvisa involuzione del sistema iraniano, una sentenza voluta da “conservatori” per screditare il governo “riformatore” del presidente Rouhani. Quell’impiccagione è la norma, nella Repubblica Islamica. Secondo il rapporto del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, pubblicato a settembre e dedicato al caso Iran, le promesse di Hassan Rouhani per una maggiore libertà nella Repubblica Islamica non sono risultate in alcun sensibile miglioramento della situazione dei diritti umani. Le statistiche sulla pena capitale, comminata per reati religiosi e politici, oltre che per reati comuni (soprattutto lo spaccio di droga), sono a dir poco impressionanti. Il rapporto cita i dati raccolti da Deathpenaltyworldwide (“pena di morte nel mondo”), il database della facoltà di legge della Cornell University: da quando il presidente Rouhani ha vinto le elezioni (giugno 2013) sono state eseguite dalle 624 alle 727 sentenze capitali. Vuol dire che, in Iran, muoiono quasi 2 condannati a morte al giorno. E, sempre secondo le stesse stime, vi sono altri 2000 condannati nel braccio della morte. Secondo stime ritenute attendibili dal segretario generale dell’Onu, ci sono 160 giovani in attesa di sentenza che hanno commesso reati quando avevano meno di 18 anni. Da quando è al potere Rouhani, le condanne a morte sono aumentate. Nel 2012, ultimo anno della presidenza di Ahmadinejad, il numero di esecuzioni era stimato dalle 314 alle 540. Dunque nell'ultimo anno sono raddoppiate.

Queste stime sono necessariamente imprecise (e potrebbero essere approssimazioni al ribasso), perché in Iran non esiste un sistema giudiziario garantista, né pubblico. Buona parte delle sentenze di morte sono eseguite in segreto, in carcere, senza neppure un verdetto di condanna. Secondo l’opposizione all’estero del Consiglio Nazionale di Resistenza Iraniana, nell’ultimo anno la Repubblica Islamica avrebbe impiccato (o ucciso con metodi ancor più crudeli, come la lapidazione) ben 828 prigionieri dal mese di agosto 2013 ad oggi. Di queste, 313 sono avvenute in pubblico, altre 515 in carcere senza alcun annuncio ufficiale. Fra questi, vi sarebbero almeno 22 donne, 13 minorenni e 20 prigionieri politici. Un caso clamoroso, ma poco conosciuto, denunciato dalla resistenza iraniana all’estero, è l’esecuzione di massa di 11 prigionieri, avvenuta lo scorso agosto. Durante la loro impiccagione è scoppiata una ribellione nel loro carcere e la polizia ha aperto il fuoco sui detenuti, uccidendone almeno cinque. Sono eventi drammatici, non ancora verificati da fonti indipendenti, ma dei quali pochi hanno voglia di condurre serie indagini internazionali.

Un po’ più celebre è l’episodio che riguarda un prigioniero politico, Gholamreza Khosravi Savadjani, accusato di finanziare il movimento di opposizione dei Mujaheddin del Popolo, impiccato lo scorso 1 giugno. Anche in quel caso si era mossa la diplomazia internazionale, con il Canada in prima linea, per fermare l’esecuzione. Si era mossa anche Amnesty International, che aveva rivolto un appello urgente al governo di Teheran, contro una condanna comminata dopo un processo condotto “in disprezzo sia della legge internazionale che di quella iraniana”. Dal momento del suo arresto, nel 2008, Khosravi è stato incarcerato in isolamento per 40 mesi. Torturato, avrebbe dovuto fare una confessione televisiva, ammettendo le sue colpe e denunciando l’operato dei Mujaheddin del Popolo (un metodo non molto differente da quello usato dall’Isis). Avendo rifiutato, la sua condanna alla detenzione di 3 anni è stata inspiegabilmente commutata in pena capitale. Né la sua famiglia, né il suo avvocato sono stati informati della sua imminente esecuzione.

Prima di Reyhaneh Jabbari, anche un’altra donna, Farzaneh Moradi, era stata impiccata nel carcere di Isfahan, il 4 marzo scorso. La sua storia è molto indicativa: costretta a sposarsi all’età di 15 anni, è stata accusata di aver ucciso il marito. Un’accusa che ha sempre negato e che non è mai stata del tutto provata in un processo tutt’altro che equo.

Questa è la giustizia “formale”. Poi c’è quella “informale”, nelle strade, che è ancora più brutale. La città di Isfahan è terrorizzata da una serie di attacchi con acido, ai danni di donne che non sono vestite in modo “appropriato”, cioè con il velo nero che copre interamente i capelli. Misteriosi uomini si aggirano per le strade della città, in moto, in cerca di bersagli da sfigurare. Gli attacchi, negli ultimi mesi, sono stati almeno otto, le donne colpite sono una dozzina. La polizia ha arrestato quattro sospetti, ma l’indagine non ha risolto il caso. C’è il forte sospetto che si tratti di una gang di vigilantes che agisce per conto della polizia religiosa. Il presidente precedente, Mahmoud Ahmadinejad, aveva lanciato una dura campagna per il “buon costume”, facendo manganellare le donne mal velate. Adesso sta accadendo la stessa cosa, anzi peggio, ad opera di anonimi vestiti in borghese, che probabilmente civili non sono. Il governo accusa l’Occidente: ritiene che si tratti di spie straniere presenti in Iran per screditare il buon nome di Teheran. Quindi è probabile che siano veramente agenti in borghese: il regime iraniano è solito attribuire ai suoi nemici le proprie colpe.

Questa è la Repubblica Islamica. È un sistema fondato sulla legge coranica implementata con la forza. Gli appelli internazionali, di Amnesty, di Human Rights Watch, così come dei governi occidentali, non sono serviti a nulla, in tutti i casi di cui si è interessata l’opinione pubblica internazionale. Anzi sono stati percepiti, dalle autorità iraniane, come una prova ulteriore della “eccezionalità” del loro sistema, contrapposto a tutti gli Stati secolari, alla democrazia, a sistemi di leggi fondati sui diritti umani e non divini. Da un lato dobbiamo smettere di essere ingenui e credere che un appello possa fermare la mano del boia. Dall’altro non dobbiamo essere illusi, né credere che un presidente che si atteggia a moderato, faccia dell’Iran una “democrazia” rispettosa dei diritti umani, un alleato su cui contare per riportare la libertà e l’ordine nelle regioni occupate dagli estremisti sunniti.