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INTERESSE NAZIONALE

Marò in India, l'Italia si fa umiliare

Una serie clamorosa di errori da parte del nostro governo ha permesso all'India di incarcerare due militari italiani.

Attualità 07_03_2012
Marò incarcerati, l'Italia si muove

La vicenda dei due fanti del reggimento San Marco, prigionieri delle autorità indiane e ora incarcerati (anche se con qualche privilegio rispetto ai detenuti comuni) sta ridicolizzando il governo italiano che troppo tardivamente ha cominciato ad alzare (sobriamente) i toni con Nuova Delhi.

L'accusa di aver ucciso due pescatori, ritenuti dei pirati che stavano per abbordare la petroliera Enrica Lexie, è priva di prove concrete e dimostra l’arbitrarietà dell’azione giudiziaria indiana del tutto incompatibile con il diritto internazionale dal momento che la petroliera navigava in acque internazionali. Ma questa considerazione nulla toglie ai patetici limiti emersi nell'azione politica, diplomatica e militare italiana durante la gestione di questa crisi.


Le autorità indiane non avevano nessun titolo per indurre la Lexie a entrare nel porto di Kochi ma la decisione assunta dal comandante e dall’armatore ha evidenziato l’assenza di procedure che prevedano di interpellare la Difesa quando a bordo dei mercantili vi sono militari di scorta. Inutile sottolineare che, una volta entrata in acque indiane, la nave andava “protetta” dall’ambasciata italiana che avrebbe almeno potuto portare i militari all’interno di una sede consolare che gode dell’extraterritorialità o impedire, minacciando un grave incidente diplomatico, alla polizia indiana di arrestare due militari italiani in servizio sequestrandone pure le armi. Un atto inaudito mai accaduto in tempo di pace che è stato accolto dal governo italiano quasi con stupore e rassegnazione, non con rabbia e fredda determinazione.


Il governo non ha attivato l’Unione Europea e le Nazioni Unite né inviato verso Kochi la nave da guerra italiana schierata nell’Oceano Indiano per la lotta ai pirati (la fregata Grecale) la cui presenza non avrebbe certo significato la volontà di muovere guerra all’India ma almeno la determinazione dell’Italia a liberare i propri soldati segregati o prigionieri, a seconda dei punti di vista. A rafforzare la percezione degli indiani di poter prendere a schiaffi impunemente l’Italia hanno contribuito i molti errori di Monti e dei suoi ministri. Nelle prime 48 ore nessun ministro o vertice militare ha detto una sola parola sulla vicenda lasciando così che, incontrastate, le accuse indiane prendessero spazio sui media internazionali mentre anche i giornali e le televisioni italiane hanno inizialmente mantenuto la notizia a basso profilo. Persino i siti istituzionali non si occupano della vicenda, escluso quello della Marina militare.


Il tentativo di non irritare gli indiani è stato percepito come un segnale di arrendevolezza così come la visita del ministro degli Esteri Giulio Terzi, che nonostante la detenzione dei due marò non ha rinviato né condizionato il suo viaggio a Nuova Delhi con una nutrita delegazione di aziende. Il business ha il sopravvento sull’arbitraria carcerazione di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone; infatti tra poche settimane arriverà a Roma una delegazione indiana, e a fine marzo le nostre industrie del settore Difesa saranno presenti in massa a Defexpo India, il salone dell’industria militare di Nuova Delhi.  


Nessuna dura reazione da parte dell’Italia se non un po’ di “vivissima preoccupazione” benché le prove degli indiani siano una barzelletta. Il calibro dei fucili che avrebbero colpito il peschereccio Saint Antony vennero definiti inizialmente dagli inquirenti da 12,7 millimetri (mitragliatrici pesanti o fucili da tiratore scelto) ma quando si accorsero che sulla Enrica Lexie non c’erano armi di quel calibro ma solo fucili con proiettili da 5,56 millimetri hanno cambiato versione dicendo che il calibro era proprio quello. Peccato che armi e proiettili di quel tipo vengano utilizzati anche dalla Guardia costiera indiana e da quella dello Sri Lanka che spesso spara ai pescherecci indiani che, come il Saint Antony, vanno a pesca di tonno nelle acque dell’isola un tempo chiamata Ceylon. Certo dalle autorità dello Sri Lanka è più difficile ottenere indennizzi e non certo da mezzo milione di euro come quelli chiesti dai famigliari dei due pescatori morti e dal proprietario del peschereccio all’armatore della petroliera italiana.


I pescatori hanno affermato di aver sempre navigato in acque indiane e quindi non potevano incontrare la Lexie che si trovava a oltre 30 miglia dalla costa. A sparare potrebbero essere anche stati uomini armati a bordo dei mercantili greci Olympic Flair e Ocean Breeze che hanno colori e dimensioni simili alla petroliera italiana e almeno una, la Olympic Flair, ha denunciato un attacco dei pirati in acque indiane quello stesso 15 febbraio. Del resto le dichiarazioni dei 9 pescatori superstiti del Saint Antony sono del tutto inattendibili se non costruite a tavolino.

Il 16 febbraio dichiararono alla stampa indiana di non sapere cosa fosse successo perché dormivano quando alcuni colpi uccisero i due uomini in coperta, entrambi nella cabina del timone. Il 22 febbraio, con la Enrica Lexie nel porto di Kochi e i due fucilieri sotto custodia della polizia, i pescatori hanno improvvisamente ricordato tutto.

Freddy, il proprietario del  St. Antony, ha detto che il peschereccio è stato colpito da “una pioggia di colpi” per due minuti provenienti da gente armata su una nave nera e rossa (colori della Lexie ma anche di molti altri mercantili) che ha ucciso il timoniere e un altro uomo colpito al petto mentre si trovava a poppa. Se questo racconto fosse credibile tutti i proiettili che hanno colpito il St. Antony avrebbero avuto una traiettoria dall’alto verso il basso. Invece molti di quelli ritrovati erano stati sparati alla stessa altezza o addirittura da più in basso del peschereccio come se chi avesse aperto il fuoco si trovasse su una piccola imbarcazione.

Insomma i conti non tornano, le prove contro gli italiani non esistono e l’India viola il diritto internazionale calpestando il tricolore. Ce n’è abbastanza per aspettarsi dal nostro governo qualcosa di più di una “vivissima preoccupazione”.