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CONTINENTE NERO

Le infinite guerre africane e l'inutilità dei caschi blu

Il Sudan del Sud compie dieci anni, ma non ha nulla da festeggiare. Da anni, ormai, è lacerato da una guerra civile e i morti sono mezzo milioni (e milioni gli sfollati). E' una delle guerre infinite africane, come il Centrafrica, o il Congo. Dove gli interventi Onu sono inutili e costosi, poiché non possono rimuovere le cause dei conflitti.

Esteri 11_07_2021
Caschi blu in Sudan del Sud

Il 9 luglio 2011 nasceva il Sudan del Sud, per secessione dal Sudan. Finalmente i suoi abitanti erano al sicuro, dopo decenni di soggezione alla leadership arabo-islamica e uno stato di guerra quasi ininterrotto  che ha provocato quasi due milioni e mezzo di morti e oltre quattro milioni di profughi. Dieci anni di indipendenza dovrebbero essere un traguardo da celebrare con cerimonie ufficiali lungo tutta la giornata e in tutto il Paese e invece nessuno ha fatto festa il 9 luglio perché nessuno nel Sudan del Sud ne ha motivo. Appena due anni dopo aver acquistato la libertà, e con essa  la proprietà di tre quarti dei giacimenti di petrolio sudanesi, le due maggiori etnie, i Dinka e i Nuer, hanno aperto una crisi di governo e nel giro di qualche settimana si è scatenata una guerra civile che ancora non si può considerare conclusa, nonostante siano stati sottoscritti diversi accordi di pace.

L’origine del conflitto è stata la spartizione delle cariche politiche e il progressivo accentramento del potere nelle mani dei Dinka. Il risultato è un paese in miseria, alla deriva: altri 400mila morti, 2,1 milioni di sfollati, 1,5 milioni di rifugiati. Il presidente Salva Kiir, un Dinka, e il vicepresidente Riek Machar, un Nuer, stanno ancora discutendo l’attuazione dell’ultimo accordo, siglato nel 2019, mentre 7,7 milioni di cittadini su un totale di 11,1 milioni stanno affrontando la peggiore crisi umanitaria dall’indipendenza. Tra gli ostacoli alla pace, oltre alla distribuzione dei ministeri, c’è la difficoltà di creare un unico esercito convincendo i militari delle diverse etnie a convivere e a rispettare le gerarchie. Il 17 giugno, parlando alle alte cariche militari durante un summit organizzato nella capitale Juba, il presidente Kiir ha riconosciuto che mettere insieme dei soldati che per anni hanno combattuto su diversi fronti è un’impresa ardua, che richiede tempo.

Salva Kiir e Riek Machar non hanno mai fatto mistero di essere pronti alla guerra, a oltranza, pur di assicurare alle rispettive etnie il potere e quindi il controllo delle risorse petrolifere del Paese. Il Sudan del Sud è a questo riguardo un caso esemplare. Dà ragione agli studiosi, in verità pochi, secondo i quali gli interventi internazionali, diplomatici e militari, per mettere fine alle guerre in Africa hanno un’efficacia limitata, quando non nulla, e questo perché non rimuovono mai, né potrebbero, le cause all’origine dei conflitti, cause di cui sono responsabili i governi africani.

C’erano voluti anni di colloqui mediati dalla comunità internazionale per mettere fine alla guerra tra il governo del Sudan e l’Spla, l’Esercito per la liberazione del popolo del Sudan che combatteva per le popolazioni del Sud. L’Accordo di pace finale è stato la sintesi di otto documenti firmati tra il 2002 e il 2004. Altri anni di incontri mediati da inviati internazionali, segnati da progressi “dolorosamente lenti”, sono stati necessari per raggiungere un precario accordo tra i vertici delle etnie del Sudan del Sud, mentre sul territorio nazionale restano pericolosamente attivi diversi focolai di guerra.

Un altro caso esemplare è la Repubblica Centrafricana dove la guerra è iniziata nel 2012 con un colpo di Stato e dove di accordi di pace, sempre grazie alla mediazione internazionale, ne sono stati firmati addirittura otto in sette anni e ancora si combatte. Il cessate il fuoco deciso il 19 giugno 2017 grazie alla Comunità di Sant’Egidio non è mai entrato in vigore, ad esempio: addirittura, nei due giorni successivi si sono subito verificati scontri violentissimi, con un centinaio di vittime civili. La guerra è iniziata nel 2012 con un colpo di Stato. A scontrarsi sono decine di gruppi armati che controllano più del 70% del paese: milizie con forti componenti islamiche formatesi dopo lo scioglimento della coalizione Seleka, autrice del colpo di stato, e milizie “Anti-Balaka”, composte per lo più da cristiani, in origine nate per l’autodifesa delle comunità prive di protezione da parte dello Stato. 

Quanto all’efficacia degli interventi militari, è sufficiente considerare gli esiti delle operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. Delle 31 missioni effettuate in Africa, quasi la metà non ha raggiunto l’obiettivo. Attualmente ne sono in corso sei, nessuna delle quali sta ottenendo i risultati sperati. La Minusca, composta da 15.069 unità, è stata attivata nel 2014 nella Repubblica Centrafricana con la missione prioritaria di proteggere i civili. Il minimo che si possa dire è che sta fallendo lo scopo (per inciso, inoltre dei caschi blu sono stati ripetutamente accusati di abusi sessuali). La Minusma (18.318 unità), in Mali dal 2013, dovrebbe sostenere il processo di stabilizzazione politica. Basti dire che il Nord del paese continua a essere infestato da gruppi di jihadisti e nel paese ci sono stati due colpi di Stato negli ultimi nove mesi: nel settembre del 2020 e lo scorso maggio. La Unisfa (3.709 unità) è in Sudan dal 2011 nella regione di Abyei, tuttora contesa tra Sudan e Sudan del Sud a dieci anni dalla secessione. Sempre nel 2011 è nata la Unmiss (19.174 unità) con il mandato di vigilare nel Sudan del Sud sulla protezione dei civili e il rispetto dei diritti umani, assicurare la distribuzione degli aiuti umanitari e l’attuazione del cessate il fuoco. La Monusco (17.669 unità) opera dal 2010 nella Repubblica democratica del Congo. Ha sostituito la Monuc che era stata attiva dal 1999 al 2010. La sua missione di proteggere i civili e consolidare la pace è del tutto fallita come dimostrano le drammatiche notizie che arrivano quotidianamente dalle province orientali del Paese dove decine di gruppi armati imperversano, infierendo sui civili quasi incontrastati. Per finire nel Sahara Occidentale, territorio ex colonia portoghese che il Marocco ha annesso nel 1976,  c’è la Minurso (461 unità), istituita nel 1991 per gestire il periodo di transizione durante il quale sarebbe stato organizzato un referendum con cui gli abitanti del Sahara Occidentale avrebbero deciso tra l’indipendenza e l’integrazione al Marocco. Il referendum non è ancora stato fatto.